Atlas Sound è Bradford Cox, che i musicofili più appassionati e colti (non io, purtroppo) sicuramente assoceranno ai Deerhunter, una delle band ambient punk (come il gruppo ama definirsi) più influenti del panorama indie rock americano.
Parallax, il secondo disco pubblicato da Cox, si discosta sia dal lavoro precedente che dall’impronta lasciata dalla band. È un disco onirico, che mette da parte qualunque cosa che vagamente riconduca al noise per trasportare l’ascoltatore in un’atmosfera liquefatta, pare che ogni pezzo si stia sciogliendo. Te Amo, ad esempio: brano dalla psichedelia morbida, un po’ serenata, un po’ ninna nanna. Degno di nota il featuring in Mona Lisa, track orecchiabile, ma che sa di già sentito (forse l’unica dell’album) accompagnata dal piano di Andrew VanWyngarden, l’uomo dei sogni di ogni indie girl (è il ricciolone degli MGMT). La vera protagonista di ogni traccia è senza dubbio la voce di Cox, che riesce a elevarsi oltre il suono degli strumenti, diventando strumento musicale essa stessa: sono proprio le corde vocali a “sciogliere” ogni melodia, più che le corde della chitarra o i suoni riverberati presenti in quasi ogni pezzo.
Nella versione giapponese dell’album, e solo lì purtroppo, sono presenti i due pezzi che smascherano la vera anima di Atlas Sound. Quark pt.I e Quark pt.II infatti, sono pure sperimentazioni di ritmi e suoni: non esagero nel paragonarle agli ultimi lavori di Eskmo, più per atmosfera che per suond in sè. Un vero peccato che vengano scorporate dal resto dell’album, che rimane comunque un prodotto molto particolare/particolareggiato, ma non di difficile ascolto.
Parallax non è certamente un album che passerà alla storia, ma non credo sia volontà dell’artista che lo fosse. Nella sua semplicità riesce a trasmettere precise emozioni, traccia dopo traccia, ed è un traguardo che non tutti riescono a tagliare. È un album che ricorda sogni e solitudine: “When you’re down, you’re always down”.