Ma chi l’ha detto che la protesta sociale dev’essere picchiata sulle pelli di una batteria per essere convincente? Ci pensavo poco prima di ascoltare Turisti della Democrazia, l’album di esordio de Lo Stato Sociale, in uscita per Garrincha Dischi il prossimo 14 febbraio.
La risposta me l’hanno data loro ed è facilissima: non l’ha detto nessuno. Già, perché questi asprissimi bolognesi fanno del pop la loro cifra sonora, né più né meno come tanti altri da Bologna al Conero (pare che il Korg sia la nuova Gibson…) e lo fanno con una serietà imbarazzante.
Tanto beat, tastierini lanciatissimi, perle di archi e fiati incastonate qua e là. Un disco colto e ricco (che ci si ferma a chiedersi se sia davvero un esordio) ma che non rinuncia all’essere travolgente. Ritmiche serrate, ritornelli già tormentoni, citazioni dagli anni ’90 più radiofonici e dagli ’80 più vacanzieri: se lo facessimo suonare senza la voce, quasi lo si potrebbe definire “commerciale”, aprendo a quintali di infamia e disprezzo dagli ambienti indie che contano.
Poi però ci mettono la voce e “commerciale” smette di essere il primo aggettivo della lista. A sostituirlo una lunga serie che spazia tra il “feroce” e il “caustico”. In questi undici brani gli emiliani tirano fuori, sviluppano e srotolano quello che di interessante avevano già lasciato intravedere nell’Ep dell’anno scorso, affilandolo.
Undici tracce di indignazione ed irriverenza (per usare termini da prime time) a sezionare con occhio spietato il Paese, la società, le pose indie, la politica e le sue bugie, i rapporti umani di una giovinezza egoista e inaridita, col futuro alle spalle.
Il fatto è che ogni canzone evoca e pretende discussioni lunghissime o semplicemente silenzi basiti e consapevoli. Qui si possono fare degli esempi, sulla scia dei gusti personali e dei rimandi generazionali più spicci.
E quindi citiamo la opening track Abbiamo vinto la guerra, dal ritornello debordante a raccontarci la deriva di miseria che è toccata ad un popolo che ha vinto la guerra. Poi agli antipodi del disco c’è Pop i cui riverberi 80’s sono la scusa perfetta per fare il verso a tutta la scena pop, disillusa e disinteressata, persino a se stessi. Spicca la velenosissima Mi sono rotto il cazzo, canzone dal testo di una potenza debordante, crudo e diretto, che sarebbe da citare integralmente, ma insomma, le sorprese vanno lasciate tali.
Ma le mie preferite in assoluto sono altre: l’acidità elettrica di Ladro di cuori col bruco ricorda le ritmiche dei Does it offend you, yeah? ed è il pretesto per mostrarci la figura dell’odierna groupie, quasi 20 anni dopo gli sproloqui radical chic di Tocca qui. Si chiama Livia, la nuova fan, beve come un cammello, si dedica al barismo più cordiale e, no, non merita poi così tanta attenzione.
E, infine, Sono così indie, ritmata e sintetica, uno sfacciato monologo recitato e un coro da stadio come ritornello, a demolire e smontare tutte quelle pose dell’underground più spiccio. Quello che snobba i blog, schifa twitter, compra t-shirt solo su ebay e indossa occhiali finti da pentapartito. Sì, dai, quello che per un po’ abbiamo fatto tutti coi soldi di papà. Applausi.
Dovrei chiudere con una frase ad effetto che riassuma tutto ciò ma Lo Stato Sociale mi offre il pretesto ideale per un finale diverso: un indovinello.
“Sono così indie che non apprezzo [BEEEP] ma lo vado a vedere comunque perchè ci vuole un giudizio rotondo e completo. / Arriva da solo, col chitarrino, chiede tremila euro… vuol dire che è bravo!“
Dai, di chi parlano secondo voi?
Qui il disco in streaming (parziale)
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