Se guardi a lungo l’abisso, l’abisso guarderà dentro di te. E allora vedrai riaffiorare piano piano tutto il torbido, la depressione, l’inquietudine che il tempo ha seppellito perché non c’era l’urgenza di analizzare. È quando credi di aver raggiunto lo stato di grazia con te stesso che devi ascoltare il nuovo album di James Blake: Overgrown è come una seduta di psicanalisi che gratta la superficie per arrivare al fondo, lì dove si accumulano i sentimenti troppo pesanti per rimanere a galla alla mercé della corrente. Le 11 tracce di questo secondo lavoro rivelano appieno lo spessore stilistico di un 24enne che sembra aver vissuto dieci vite tutte ugualmente intense, mentre tu ne vivevi una sola e pure mediocre. La sua avvenenza complessiva ti coinvolge almeno su tre piani: quello testuale, in cui quelle che potrebbero essere confidenze da cameretta vengo innalzate al livello della lirica; quello compositivo, toccando picchi massimi di orchestrazione che mancavano invece nel primo LP tutto improntato su voce e piano; e quello emozionale, toccando corde che possono fare malissimo se non sei preparato all’ascolto. Tra le nostre preferite Digital Lion, per la sinestesia elettronica portata a compimento dalla presenza della leggenda Brian Eno; il primo estratto Retrograde, per il suo pop apocalittico che si presta ad un consumo compulsivo alla portata di tutti; Life Around Here in cui la voce di Blake abbraccia e sgancia magistralmente l’ipnotica e complessa base; To The Last e Every Day I Run per due motivazioni speculari: nella prima si libera un mulinello vocale vibrante e ampolloso da cui è impossibile uscire emotivamente vivi; nella seconda l’atmosfera sospirata è fatta di bassi rarefatti e tuffi al cuore.
Collaborazioni illustri come quelle con RZA (leader di fatto del Wu Tang Clan) e quella col già citato Brian Eno, che piacciano o meno, catapultano Blake nell’olimpo della fiorita gioventù inglese che, avendo rotto le catene della definizione di genere a tutti i costi, sfoggia ora un educato talento. James è autore di un canto intimistico, che genera religiosa adorazione, perché capace di unire soul, dub e artificio senza la pretesa, e proprio per questo riuscendovi, di dettare i dogmi di una corrente ormai avviata e parzialmente già erosa. Quello di Blake è il canto della domenica cominciata col cielo plumbeo e finita col sole, ma non una domenica qualsiasi: è la domenica in cui smetti di vivere in uno stato di abbandono e comincia a sembrarti il giorno più bello della settimana perché hai raggiunto tutto quello che volevi.