Nel 2010 l’Ep The World faceva ben sperare per il futuro della band, nel 2012 la conferma con Wet Pain, e a distanza di pochi mesi la pubblicazione del primo full-lenght, rilasciato per Ghost Records. Un percorso decisamente in ascesa quello dei Videodreams─ Filippo e Marco Marra─che confezionano un album dream pop di prima qualità. Le melodie trasognanti, l’originalità del linguaggio ritmico, la capacità di creare situazioni armoniche inaspettate sono tutte impronte che i ragazzi lasciano su ogni singola traccia del disco. Un lavoro riuscito che affascina e travolge, senza il timore di perdersi in lande di sconfinata bellezza; naufragar è dolce in questo mare di leggerezza e totale empatia artistica.
1. Partiamo subito col parlare dell’album, Shipwrecks, e iniziamo dal titolo. Avete più volte messo in luce, come il termine sia metaforicamente emblematico; capita a chiunque di arrivare ad un punto morto della vita, in cui è necessario mettersi in gioco, per riscoprire i propri valori e per programmare i propri obiettivi. In definitiva, qual è l’interpretazione più corretta che si deve dare a tale denominazione? La scelta del titolo è stata unanime, o avevate preso in considerazione anche altre alternative appetibili.
Se si interpreta la vita come lo si fa per un sogno, ci si accorge che le cose che ci succedono non sono altro che degli indizi, una rappresentazione di quello che succede dentro di noi. Spesso ignoriamo questi segnali e anche i nostri desideri più profondi, per paura, perché sappiamo che comportano un cambiamento. Per cambiare bisogna scegliere, ogni scelta ci rende liberi, e la libertà è la cosa che ci spaventa di più. Eleanor Roosvelt ha detto: “La libertà comporta responsabilità. Per la persona che non vuole crescere, la persona che non vuole portare il proprio peso, questa è una prospettiva terrificante”. Il naufragio in questo caso diventa una metafora per quelle situazioni in cui la vita ci costringe a decidere. Se continuiamo ad ignorare la tempesta prima o poi ci finiamo dentro e a quel punto o prendiamo delle decisioni sincere, oppure ci lasciamo morire, che può significare anche solo vivere una vita che non ci appartiene.
Il titolo è arrivato mentre registravamo il disco. Ci è piaciuto subito.
2. Dopo anni di collaborazione con il collettivo Megaphone Records, come è stato approdare nel roster dell’etichetta Ghost Records? Come è avvenuto nello specifico il contatto con la label lombarda?
Proprio mentre stavamo registrando Wet Pain, ci siamo iscritti a “Va Sul Palco”, un concorso che metteva in palio una produzione con Ghost Records (lo stesso concorso che ha portato Il Triangolo nel roster Ghost). In quel momento avevamo già del materiale per cominciare a lavorare ad un disco vero e proprio, e visto che la Ghost è un’etichetta che abbiamo sempre stimato, ci siamo detti “ok, proviamoci”, ed è andata bene.
Abbiamo imparato un sacco di cose lavorando a questo disco. Francesco e Giuseppe, oltre ad essere due enciclopedie musicali viventi, ci hanno lasciato la massima libertà per lavorare all’album sotto tutti gli aspetti. Con Megaphone continuiamo a collaborare e anche da loro abbiamo avuto il massimo sostegno.
3. La sovraesposizione della musica in rete ha contribuito al lancio di numerose band e al collasso di altre; la possibilità di entrare in possesso di album a pochi secondi dalla loro uscita ufficiale è solo uno dei cambiamenti innestati dalla nuova era digitale. Ora che siete una band sotto contratto, come vedete questo nuovo veicolo distributivo, è cambiata la vostra visione della rete e delle sue potenzialità?
Marco – Stiamo parlando di una delle tantissime rivoluzioni culturali della storia, non ci vedo niente di strano. I dischi non si vendono più? Prima o poi doveva succedere è naturale, l’importante sta nel sapersi reinventare piuttosto che guardare al passato con occhio nostalgico. La musica che viaggia libera nell’aria è un concetto a cui siamo affezionati da sempre, ci affascina e continuerà ad affascinarci indipendentemente dal nostro ruolo da spettatori o protagonisti.
Fil – Non credo sia cambiata la nostra visione. Di sicuro la possibilità che abbiamo ora di ascoltare decine e decine di dischi nuovi ogni settimana diventa rischiosa nel momento in cui lo si fa distrattamente. Un album può perdersi nel giro di pochissimo tempo nel mare di tutte le altre uscite, e passare inosservato. C’è da dire però che la possibilità di ricerca che da la rete, soprattutto se si lavora proprio a livello di ricerca sonora, per per trovare quello che più ci interessa, è immensa. L’importante è non farsi inghiottire da tutto questo, pensare sempre prima al proprio lavoro, alla musica, ad essere sinceri con se stessi e con il proprio pubblico. Non deve diventare una gara con gli altri. Bisogna rimanere concentrati e se la strada è quella giusta, tutto va a posto da solo.
4. Qual è la cosa più personale che avete messo in quest’album?
Fil – Tutto quanto. Ogni singola nota e parola.
Marco – Negli scorsi due anni ho vissuto un periodo un po’ strano. Il corpo è lo specchio di ciò che succede al suo interno: molte cose in me sono cambiate al punto che la gente per strada non mi riconosce più. Un naufragio silenzioso raccontato in modo altrettanto silenzioso. Potrebbero sembrare colpi di bacchette su pelli, piatti e cerchi, in realtà sono i miei ultimi due anni di vita.
5. Uno dei vantaggi di collaborare tra fratelli, come nel vostro caso, è sicuramente l’essere affiatati. Due ragazzi uniti non solo geneticamente, ma anche da un viscerale amore per la musica. Quali sono i pro e i contro di lavorare insieme? E soprattutto, vi va di raccontarci come è nata questa passione? Avete avuto delle figure di riferimento?
Fil – Nella nostra famiglia quasi tutti suonano almeno uno strumento. Nessuno però ci ha mai spinto a suonare per forza, le cose sono nate dalla nostra curiosità. Oltretutto siamo cresciuti in un’osteria di paese (della nostra famiglia), dove spesso la gente si ritrovava a cantare ogni tipo di canzone popolare. Ovviamente a quei tempi non ci facevamo molto caso, ma pensandoci ora di sicuro abbiamo assorbito tutta quell’atmosfera e quelle note. Forse è stato anche quello ad influenzarci. Quando ascoltiamo le nostre canzoni ritroviamo spesso dei richiami a quelle melodie.
Marco – Suonare uno strumento è una cosa che ho fatto “per gioco” sin da piccolissimo da quando picchiavo a caso su un vecchio pianoforte a casa di nostro nonno. L’ispirazione sullo strumento che poi divenne il mio inseparabile compagno di viaggio fino ad oggi mi colpì nell’estate tra la quinta elementare e la prima media. Presi qualche lezione e imparai una cosa come quattro accordi, forse cinque, ma sufficienti per tornare a casa e cominciare a suonare veramente le canzoni che fino ad allora avevo solo potuto canticchiare. Non ricordo di aver fatto altro per almeno due anni.
Fil – Quando ho messo insieme la mia prima band, il ragazzo che doveva suonare la batteria ci ha mollati subito. Marco ha preso in mano le bacchette e ha cominciato a suonare, così, senza aver mai preso una lezione di batteria. Sono passati dieci anni ormai, e non abbiamo mai smesso di suonare insieme. Di contro non ce ne sono molti, forse ci sono stati all’inizio, quando eravamo molto diversi sotto molti aspetti, soprattutto in quello che ascoltavamo. Dal momento che abbiamo deciso di andare verso un obbiettivo comune però, ci siamo pian piano avvicinati sempre di più, abbiamo trovato un nostro linguaggio che spesso non ha bisogno di parole.
6. Parliamo del singolo ufficiale di Shipwrecks. Il video di Can’t be wrong now ricalca perfettamente le atmosfere del brano, avvolte in una poesia onirica e provocatoria. L’effetto è di grande impatto. È nota la passione per il genere fantastico e surreale, penso ad esempio ai più volte citati Paul Eluard e Alejandro Jodorowsky, vostri prediletti. C’è dunque un significato concettuale alla base dell’intero filmato o le scene sono state dettate da una ricerca esclusivamente visiva? A chi vi siete affidati per la realizzazione del video?
Fil – Tutto quello che c’è nel video ha un valore simbolico. Ogni azione ha un suo senso, e l’obbiettivo è quello di liberarsi, ripulirsi, trasformare il dolore, i proprio blocchi in qualcosa che può darci forza.
Il personaggio interpretato da Sara può essere visto anche come un essere androgino, che incarna la nostra coscienza. Si risveglia sui resti di una zattera distrutta (dopo un naufragio appunto), e la prima cosa che fa è quella di mettersi al lavoro per liberarsi da tutto questo. Ognuno può metterci dentro quello che vuole poi. Potrebbero rappresentare dei fallimenti, delle paure, dei pesi inutili. Ma le sue azioni non equivalgono a “nascondere lo sporco sotto al tappeto”, anzi, ogni cosa viene affrontata e trasformata in qualcos’altro. Così il legno si polverizza, le corde e i nodi diventano piume e così via. Così quando il personaggio si trova di fronte all’ultimo passo, fa la cosa più coraggiosa, assorbe il nero, il buio, le paure più profonde, e questo diventa la sua salvezza. Gettandosi nell’abisso senza dubbi riscopre la sua vera forza (in questo caso rappresentata dai tre colori: rosso/attivo, verde/terrestre e blu/spirituale). Anche questo ci insegna il sognare: quando affrontiamo i mostri dei nostri incubi senza scappare, questi cambiano forma e diventano solo dei messaggeri di qualcosa che avevamo paura di sentire. Quindi la frase “you can’t be wrong now” è un messaggio per dire “fidati, trova il coraggio di guardare in faccia la tua vita e non potrai sbagliare”.
Il video era uno dei premi del concorso (oltre alla produzione/promozione/booking). La regista è Lucia Bulgheroni (che l’anno scorso ha vinto il festival di cortometraggi “Cortisonici”) alla quale abbiamo proposto la nostra idea e l’abbiamo sviluppata poi insieme. La produzione è di Andrea Zorzetto (Mondovisione).
7. Sembra che abbiate un bagaglio musico-culturale ben preciso, quanto vi influenzano i vostri ascolti durante la composizione di un nuovo lavoro? Quali sono gli artisti e le band, che più di altre, ispirano la vostra dimensione sonora?
Quello che ascoltiamo ci influenza molto, ma con l’esperienza abbiamo imparato a prendere solo il necessario e a miscelarlo con le giuste dosi. Questo ci permette di spaziare tra i vari generi senza rimanere incastrati in qualcosa di troppo definito. Ci piace la ricerca, sperimentare suoni, cambiare direzione. Ad esempio in Shipwrecks ci sono dei campioni di musica reggae e hip hop che abbiamo inserito in un contesto completamente diverso rispetto alla loro origine. Questo modo di lavorare e giocare con la musica crea delle possibilità quasi infinite.
Possiamo citare decine e decine di band che ci hanno influenzato e che continuano a farlo. Non nascondiamo di certo il nostro amore per i Radiohead o per i Beach House, ma in Shipwrecks ci sono davvero un sacco di influenze, di ogni tipo. Ad esempio “Heaven or Las Vegas” dei Cocteau Twins è un disco che abbiamo ascoltato molto mentre scrivevamo l’album, oppure “Drums And Guns” dei Low, “Dummy” dei Portishead e (tenetevi forte) “21” di Adele.
8. L’album è ricco di potenziali singoli, qual è il brano a cui siete particolarmente legati e perché?
Fil – Le mie preferite sono “Break”, per quel suono di tastiere uscito da chissà dove, che combinandosi con la batteria crea un atmosfera quasi da ballo tribale ma allo stesso tempo ha un ritornello super-pop. Poi “Secrets In The Ground”, per la sua nascosta-ma-non-troppo anima soul-funk, e “In Peace” perché è la canzone del disco dove mi sento più “nudo”.
Marco – Anch’io dico “Break” e “Secrets In The Ground” per gli stessi motivi. Aggiungo “An Exercise” perché colonna sonora di una storia appena nata.
9. Chiudiamo l’ intervista con un’ultima domanda: il verso di un vostro brano recita così “Our desire becomes destiny, finding drags is just a part of evolution”.Ora come ora, quali sono i vostri prossimi progetti e desideri? Come prevedete di realizzarli?
Fil – Per quanto mi riguarda, credo che gli obbiettivi personali vadano condivisi con parsimonia. Una volta detto quello che si vuole fare diventa infinitamente più difficile portare a termine il compito. Sto imparando a coltivare i miei progetti e desideri in silenzio, credo sia la via per realizzarli.
Quelli che riguardano i Videodreams ovviamente sono condivisi tra noi, perché sono gli stessi, e in questo caso l’apporto di energia è doppio. Non è un segreto quello che vogliamo fare. In questo momento fare musica è quello che ci viene meglio e quello che ci piace di più, quindi continueremo in questa direzione, senza mai sentirci “arrivati” perché ci sarà sempre qualcosa da imparare, come in tutte le cose.
Grazie mille per la disponibilità!
Grazie a voi!