Mattia Lullini è un bolognese emigrato a Copenaghen per amore di una ragazza con i capelli rossi. Non è propriamente un illustratore come quelli che abbiamo intervistato fino ad adesso, è piuttosto uno street artist prestato alla carta. Ama gli occhi da indiana, le decorazioni jaipur e i tribalisimi colorati, soprattutto se costruiti dentro a corpi animali. Aguzza la vista perché i suoi disegni li guardi qui, ma puoi beccarli ovunque.
Gli street artist con cui sei cresciuto, oltre i nomi che tutti immaginiamo.
Essendo nato e cresciuto a Bologna, sono i nomi conosciuti e sconosciuti di questa città quelli che mi hanno accompagnato fin da ragazzino. Vedere i muri di writers per così dire strani come Grom e le murate di una streetartista che ha preceduto tutti al principio dei ’90 (e anche prima) come Monica Cuoghi è qualcosa che ti apre gli occhi da ragazzino.Poi sono iniziati ad apparire in città i primi muri di Blu, Ericailcane, Dem, Paper Resistance e Andreco e quelli sono stati una piccola personale rivoluzione. Questi sono gli artisti ma ancor di più le persone che, per quanto riguarda i muri, l’attitudine e la serietà nei loro progetti, che mi hanno dato di più e sono grato di averne potuto vedere i lavori e ascoltare le parole.
L’abuso stilistico nel tuo ambiente che proprio non riesci più a sopportare.
La politica usata come stile e non come contenuto, con tutte le sue conseguenti incoerenze, è qualcosa che non posso sopportare.
La città che ha accolto meglio i tuoi lavori.
Certamente Torino per il numero di muri e per il rispetto che ho ricevuto dalle persone e dalle associazioni che popolano quella città stupenda. Ci ho vissuto per un anno e credo di averci dipinto più muri che in qualsiasi altro posto.Poi credo di dover menzionare New Delhi perché, nonostante vi sia stato solo per un breve periodo, i muri che vi ho lasciato non sono solo tra i più grandi che abbia mai fatto, ma probabilmente anche tra i più apprezzati che abbia mai dipinto finora.
Guardando uno dei documentari-icona sulla street art, Exit Trough The Gift Shop, mi ha sempre molto colpito l’idea dell’ ”arte come missione” che emerge fortemente nel girato. Anche tu sei affetto da quell’urgenza autoriale che porta i protagonisti del film a mettere a rischio la propria libertà fisica per la libertà espressiva?
Più che sentire l’arte come una missione sento che creare è un’urgenza e una parte di me, quella parte che inaspettatamente mi ha fatto lasciare un lavoro serio e rispettato tre anni fa e che ha fatto sì che mi trovassi in questo strano percorso, difficile a volte, ma allo stesso tempo così stupendo.
Come scegli le location per i tuoi murales?
Le volte che posso scegliere, le particolarità architettoniche sono le cose che mi attraggono. Non amo i muri perfetti, senza finestre, senza rientranze o angoli particolari. Attraverso le particolarità il murales diventa un interazione, un dialogo e, se usate bene, tutte le imperfezioni di un muro diventano forza e carattere.
Ci mandi una fotografia della scrivania su cui stai lavorando in questo momento? Nel tuo caso sentiti libero di considerare scrivania qualsiasi base accolga i tuoi strumenti di lavoro, fosse anche un’anonima strada di periferia.
Il ricordo più vivido della tua infanzia?
La montagna, d’estate. Le Dolomiti per la precisione, dove andavo ogni anno in vacanza coi miei genitori, un evento che aspettavo con ansia dal giorno in cui ritornavo fino all’anno successivo ogni volta.
La differenza tra un muro e un foglio di carta.
La fisicità, viaggiare, la paura e forse qualcosa in più che non riesco a spiegare. Qualcosa che mi ha fatto innamorare la prima volta che ho dipinto e che continua a far essere ogni muro che faccio un’esperienza speciale.
I tuoi principali punti di riferimento nel disegno sono geometria e natura. Un soggetto che trovi geometricamente perfetto come Dio l’ha fatto?
La sfera su cui abitiamo e tutte le creature meravigliose che la riempiono di colori e forme incredibili. Tutto ciò che mi circonda, mi affascina ed è una tale perfetta imperfezione.
Se ti dico Dance Like Shaquille O’Neal, cosa mi disegni?