Hype è una parola che ultimamente udiamo e leggiamo spesso, è una parola che a me piace poco e che generalmente preferisco sostituire con fotta o scimmia anche perché la fotta è qualcosa che parte da te verso qualcosa, l’hype, per come lo vedo io, è qualcosa che invece ricevi dall’esterno, una sorta di imposizione dettata da gente che non sei tu. Un valido esempio è quello dell’hype ruotato attorno dell’ultimo disco dei Daft Punk, che ha costretto il sottoscritto ad ascoltarselo per intero seduto sul cesso, dato che lo streaming è stato rilasciato durante quelle ore serali in cui mi congedo dal divano per andare a letto, passando per il limbo sanitario. Non so, ditemi voi, c’è qualcosa di più sbagliato (e triste) di un uomo che ascolta un album seduto sulla tazza per una mera imposizione della KASTA?!1″?? In più dico, metti che l’album non giustifichi l’hype, non ti crei la FOTTA, beh allora sarebbe proprio la beffa. E infatti. Ed è per questo che quando ho letto che finalmente i The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die o TWIABPAIANLATD, per “comodità”, avrebbero fatto uscire il loro nuovo e primo LP prima dell’estate ho subito pensato «PIERO STAI CALMO». Mi sono detto, tipo «Ecco, dopo anni di attesa (di una band che alla fine della fiera aveva rilasciato solo un paio di EP e uno split) mi aspetterà un’altra delusione». E invece, incredibilmente, no. Anzi, questo è stato il classico caso in cui il risultato ha superato l’hype, la fotta e pure la scimmia. Diciamo pure che con Whenever, if Ever hanno prodotto quello che probabilmente rimarrà il punto più alto di questo revival emo anni ’10. Sì perché i TWIABPAIANLATD da subito mi avevano impressionato per la loro originalità eclettica, anche se effettivamente si erano misurati solo sulla breve distanza e proprio per quella loro natura poliedrica si intuiva che avrebbe potuto presentarsi il rischio di produrre qualcosa di confuso e poco coeso nel momento in cui avrebbero rilasciato il loro primo long playing. Ad aggravare le previsioni, anche il fatto che la formazione è attualmente aumentata a numero 8 componenti; una mini orchestra insomma.
Whenever, if ever è un disco che devi ascoltare con le cuffie ed è il (mio) disco dell’anno. È un disco che integra una quantità innumerevole di influenze, ma rimane incredibilmente compatto e coerente ed è questo ciò che lo rende originale. È sempre più difficile riconoscere dell’originalità in un gruppo musicale, soprattutto in un genere così derivativo come l’emo. Invece Whenever, If Ever ti accoglie con un intro post rock atmosferico che pare uscito dalle robe migliori dei MONO, poi passaggi twinkle nella migliore tradizione emo insieme a quella voce mezza stridula che è un po’ il loro marchio di fabbrica, anche se per tutto il disco le voci soliste si danno il turno facendo accrescere ancor di più questa sensazione di gruppo dove tutti sanno fare tutto e lo fanno con lo scopo di rendere questo disco un percorso unico, quasi un concept direi. Sono presenti anche tromba e violoncello a contribuire a questa sorta di effetto Arcade Fire, dove la capacità di strutturare gli arrangiamenti è da gruppone con le palle cubiche, dove i momenti atmosferici sono dosati perfettamente tra i crescendo corali che (come si sente verso metà di “Picture of a Tree That Doesn’t Look Okay” e nel finale di “You Will Never Go To Space”) poi sfociano in pezzi post-pop-punk (cit. Simone, l’amico mio che ne sa un botto) che con l’aggiunta di quel synth sanno un po’ di Weezer, un po’ di qualcosa di nuovo. “Ultimate Steve” sembra un inno ed è un altro crescendo pazzesco che parte come una roba atmosferica che sta a metà tra Explosions in the Sky e Fleet Foxes, per poi esplodere in una roba stranissima con doppio pedale, chitarre mandolinate e urloni da stadio. Poi “Gig Life” che parte acustica e poi, man mano, aggiunge tutti gli strumenti diventando un pezzo indie rock con un arrangiamento pazzesco e con degli arpeggi che stanno insieme (da dio) ma non sai come. Passando per “Low Light Assembly” che sembra la cover di un pezzo dei TWIABPAIANLATD fatta dagli Scala & Kolacny Brothers. Si chiude con “Getting Sodas” che è un’altra bellissima pazzia che parte, e cresce, più come un pezzo post-hardcore con chiare influenze alla Jawbreaker, più cattivo insomma, e che nel momento più incazzato cambia improvvisamente in un terzinato ambient-post-rock che si acquieta, per poi riprendere in un crescendo che non farebbe rimpiangere i migliori GY!BE. Leggere i testi è fondamentale e serve a comprendere ancora meglio come, con questo disco, i TWIABPAIANLATD abbiano elevato lo standard di questo recente revival emo ad un livello difficilmente raggiungibile nel prossimo futuro. Tutto il disco trasuda maturità o meglio, voglia di maturità, desiderio di crescita di proseguire, di andare avanti, tenendo ben presente quello che ci si sta lasciando alle spalle. Essere nostalgici con lo scopo ultimo di trovare la motivazione giusta per andare avanti. I testi, la musica, insomma tutto il disco in generale (date pure un’altra occhiata alla copertina) manifestano quel particolare stato di emotività che mi piace definire euforia. L’euforia di quando sei pronto a fare un passo decisivo per la tua vita «you were afraid to make mistakes but that’s the biggest on you made», un cambio di rotta che sai che ti allontanerà da quella strada che fino ad adesso ti ha garantito benessere e sicurezza «we don’t have to stop, we live here now», forse troppa sicurezza, con la possibilità di far coincidere le due strade in futuro, chissà. L’importante è non piangersi (troppo) addosso e rimboccarsi le maniche, con quel bel sorriso (un po’ nervoso) stampato in faccia, perché «the world is a beautiful place, but we have to make it that way».