di Irene Papa / Oscar Cini / Valentina Ziliani
From Club to Club. Forse mai più titolo fu più azzeccato per un festival leader sul mercato e sulla scena italiani. Perché la kermesse che permea la città di Torino da 13 anni a questa parte non scontenta nessuno: dagli amanti degli act più ricercati, “di nicchia” come ci piace definirli ma non necessariamente i più divertenti, fino ai nomi che bucano la carta, passando da un genere di clubbing all’altro, il C2C non risparmia nessun tipo di amante della musica elettronica.
La sua forza consiste nell’immergere in un bagno culturale il capoluogo piemontese, già ventre gravido di idee e di innovazione durante tutto l’anno, che stagione dopo stagione guadagna nuovi innamorati, estimatori che spesso vengono da lontano e colgono nell’aria sabauda la serenità e la dolce lentezza che manca in altre città, come Milano, subissate dall’avidità del lavoro.
DLSO arriva a Torino il venerdì sera e, dopo un breve salto alla Fondazione Sandretto Re Rabaudengo, headquarter del festival, per un inizio chilling fatto di chiacchiere tra amici e birrette senza pretese, ci spostiamo ai Cantieri O.G.R., spettacolare location che lascia fantasticare su quanti rave di musica da camera vi si sarebbe potuto fare a metà dell’800 invece di ripararci locomotive. Le pareti nude delle officine suggeriscono alla mente un misto di fascino e bellezza, ma forse qualche allestimento o qualche istallazione luminosa in più non avrebbero guastato: in fin dei conti gli occhi dovranno pure avere qualcosa da fare mentre le orecchie febbricitano sulle note di The Haxan Cloak.
Ed è proprio da quest’ultimo che comincia il nostro report. Le Officine Grandi Riparazioni sono ora un polo espositivo di 20.000 metri quadrati e nulla meglio di questa cattedrale neo-fordista poteva ospitare il live spettrale e industriale del produttore inglese che in poco meno di un’ora, perennemente avvolto da una nube di fumo, si muove tra territori witch, dark e ambient riuscendo a trasformare le O.G.R. in una spelonca nera come la pece. La folla, affascinata e senza dubbi inquieta, accoglie con entusiasmo il cambio palco ricambiando l’energia tribale e irruenta dei Ninos du Brasil, duo italiano che ci trasporta tutti a San Paulo. Impossibile stare fermi, complici le percussioni tropicaliste e gli splendidi visual che intramezzano una magica (e amara) Italia-Brasile direttamente dal mondiale di Messico ’70 a bandiere carioca sorridenti con tanto di smiley.
Subito dopo il timone passa al fondatore della Border Community, l’anno scorso piazzato in chiusura del Gran Finale alle 5:00 del mattino, questa volta sdoppiatosi in due act distinti: un live tenutosi giovedì sera al Teatro Carignano per la gioia dei presenti, quindi non noi, e un DJset magistrale del venerdì ai Cantieri, e qui sì, c’eravamo in carne ed ossa. Il Giovane Holden normalmente non ci entusiasma per via della sua musica fumosa che picchia duro e non chiude mai il cerchio, ma con questa performance ha davvero da insegnare qualcosa ai padri dell’elettronica. Inizia il suo set con There is Love in You di Four Tet e dà lustro del proprio sapere in un vero compendio IDM e Techno. Se poi ci aggiungi che ha droppato due tra le tracce preferite di DLSO che sono Angel Echoes sempre a firma di Four Tet e l’incomparabile Sun di Koreless, capisci perché il suo set non si è limitato ad un taglia e cuci di snippet altrui, ma ha reso cerebrale e materica la musica che passava tra le mani.
Alle sonorità di James sono subentrate quelle di un meraviglioso Jon Hopkins. Bada bene, che l’aggettivo meraviglioso non è usato in sostituzione di una qualsiasi altra definizione di entusiasmo. La meraviglia è il sentimento più prossimo a quello che il producer inglese ha creato nel pubblico in adorazione, paragonabile forse solo all’estasi che ti dà la scoperta dell’orgasmo. Un surrealismo che si taglia col coltello cala non appena parte Breathe This Air, seguita da Open Eye Signal e We Disappear in ordine sparso. Un live dopo il quale devi darti dei pizzicotti per capire se sogni o sei desto, terminato con una parentesi di raw techno che spezza l’incantesimo e ti riporta alla realtà. Un muro di synth e 4/4 techno, per la serie “seh, vabbene Brian Eno, ma mo’ vi metto la cassa dritta”. Vessel conclude un trip sonoro che lascia sul pubblico un’espressione a metà strada tra lo smarrito e il piacere.
Meno entusiasmante è stata invece la riuscita dell’Hiroshima Mon Amour: un locale in cui è sempre un piacere mettere piede per ricordarsi dov’è cresciuta la Torino underground, ma impallato di gente e con una line-up perfetta sulla carta, che tocca dalla disco alla techno allo sperimentalismo puro, ma meno brillante nella resa concreta. Todd Terje ha dato forfait al’ultimo, Nina Kravitz suona troppo tardi per i nostri corpi stanchi: nel mezzo le nebulose atmosferiche di Koreless che non delude mai, un Kyle Hall salito sul palco troppo presto per la sua raw techno senza sfaccettature, Objekt perso nelle sue scie chimiche perennemente in bilico tra il fascino e la noia, come tutto quello che si avvicina alla perfezione.
Sabato 9 è invece il giorno della festa magna: c’è il Gran Finale al Lingotto Fiere, un hangar enorme dove si riunisce un variegato bestiario umano che ti ricorda dovrai fronteggiare di santa pazienza i difetti dell’italiano medio che esce di casa a mezzanotte: ha problemi di deambulazione lineare, è convinto di avere un’armatura greco-romana invece delle spalle e la usa per farsi spazio, ama la calca più di sua madre e fa di tutto perché anche tu condivida con lui questa passione. La line-up della Sala Grande pare seguire un ragionamento speculare: John Talabot in apertura è una sfida almeno quanto piazzare Ben UFO in chiusura, ed entrambi se le cavano egregiamente.
Non capita mica tutti i giorni di entrare ad un festival relativamente presto e trovare subito un set così: Talabot si ritrova a dover riscaldare l’ambiente, cosa che non gli riesce affatto male, e spinge le tracce del suo ultimo DJ Kicks creando l’atmosfera giusta, anche se, alla lunga, la scelta dei brani risulta vagamente monotematica.
Nel mezzo si dispiegano una ad una le performance dei Big: Four Tet ammalia, ma non stupisce, sarà perché l’avevamo sentito poco più di un mese fa in Croazia e ci aveva lasciati con troppa acquolina in bocca. Il (bel) produttore UK è stato però una presenza costante all’interno del festival: le sue sonorità subacquee hanno scandito il paesaggio di un #C2C sempre sul filo tra la techno e l’elettronica.
Grandi attesi del festival sono Byetone e Alva Noto, conosciuti in tandem come Diamond Version, che riescono nell’impresa, affatto semplice, di continuare a fomentare un pubblico appena uscito da un bagno di gioia dovuto al live di Four Tet. Rivisitare gli elementi techno è quanto si prefigge il duo dalla classe assoluta, il risultato finale è un set che spinge forte e che, seppur nella semplicità di alcuni brani, trova il pieno assenso della platea che pare apprezzare non poco i suoni digitali del duo tedesco. Estremamente interessante anche l’uso dei visual nel lavoro della coppia di maestri della Raster-Noton.
A seguire i Modeselektor, impareggiabili aizzatori di folle, chiassosi come al solito, vocalist d’eccezione, ma promossi con un meno meno: il duo di Berlino ha fatto il suo, dove suo sta per set techno dritto e martellante, privo di sfumatura alcuna e con rari passaggi dei loro successi da hit parade. Stesse parole sentiamo di riservare a Julione Bashmore: ti aspetti un set colorato, housy, booty clap, e ti ritrovi un’ora di techno interrotta solo da un paio di hit del grande tubo, Need U 100% e Au Seve.
Nella Sala Rossa, intanto, che con molta probabilità aspira a diventare la Boiler Room de’ noialtri a giudicare dalle temperature illegali, andiamo ad ascoltare la parte finale del set di Kode9. Come sempre il boss della Hyperdub non si smentisce, il suo lavoro è un calderone magico in cui la bass music viene fuori in tutti i suoi aspetti, jungle e footwork si fondono con inserti soul capaci di portare gioia anche nel più buio dei cuori.
Sempre nella piccola Sauna Rossa, attendiamo due ragazzotti che ci procurano il pane quotidiano su DLSO: uno viene da Glasgow, si chiama Rustie, e ti fa sorgere spontanea la domanda di cosa diano da mangiare ai ragazzini da quelle parti: jungle per colazione forse, footwork all’ora di pranzo e trap a chiudere la cena, perché la naturalezza con cui il ragazzo maneggia i suoni spezzati lo riconferma ogni anno come uno dei migliori performer in scaletta. L’altro è di stanza a Brooklyn, sulla carta d’identità è Travis Stewart ma tutti lo conoscono come Machinedrum. Ha appena imbracciato la sua chitarra e lo spettacolo di Vaporcity si preannuncia immaginifico: drum incalzante con batterista metronomo, visual che si adattano alla perfezione con il sound dei due musicisti. Purtroppo le cose sono destinate a prendere una piega diversa. Salta il proiettore e la performace diventa solo audio, il buon Travis almeno inizialmente pare non essere un drago con la chitarra, recupera però quando attacca a cantare. Lo spettacolo messo in piedi è potenzialmente qualcosa di eccezionale, tant’è che a tratti si riesce veramente a godere come poche altre volte, ma qualcosa pare mancare o non essere sviluppata ancora alla perfezione. Act da rivedere quanto prima per goderne a pieno i frutti e la maturazione.
A prendere la staffetta per la chiusura ci sono infine Andy Stott da un lato e Ben UFO dall’altro: il DJ della BBC raccoglie il fardello di techno lasciatogli dai suoi predecessori e continua sulla stessa linea, portandosi a casa il merito di mantenere una personale coerenza con gli altri set ed evitando di spezzare il cuntinuum sonoro ormai insediatosi. Andy Stott sorprende invece con un andamento più spedito del solito, che abolisce la linea separatoria tra footwork ed elettronica pura, tra macchina e uomo, tra aspirazione e realismo.
Ma qual è stata la sensazione più forte inoculata dal festival? Ne abbiamo almeno due ancora a fior di pelle: la prima è che affermare che il Club To Club sia il miglior contenitore di elettronica in Italia vuol dire che un po’ ci piace vincere facile. Parliamo di una kermesse che ha la solidità di 13 anni di esperienza alle spalle, che gode di una disponibilità economica ben calibrata e che ha imparato che senza gli artisti cuscinetto non si va da nessuna parte, perché un festival pretenziosamente snob è un festival che non ha l’ambizione di perdurare nel tempo. Torino non è una meta per amanti di scelte artistiche dettate da genio e sregolatezza, è una luogo per appassionati di clubbing a tutto tondo che non storcono il naso se leggono il nome di Andy Stott accanto a quello di Nina Kravitz.
L’altra riflessione è invece strettamente personale: l’edizione 2013 del C2C ci ha ricordato quanto è bella la musica pop. Dove pop sta per popolare, conosciuta, ascoltata, cantata e ballata in ogni buco di club che questa terra abbia da offrire. È inutile fare gli spocchiosi: puoi dilungarti con tutte le righe che vuoi su quanto sia figa Retribution di Pinch suonata live, ma alla fine le braccia alzi su Berlin dei Modeselektor e su Glass Swords di Rustie. E ti piace tantissimo farlo.