Bergamo, a metà strada tra città bassa e città alta. È qui che si trova TEMP, studio grafico fondato da Fausto Giliberti, Guido Gregorio Daminelli e Marco Fasolini, concentrato sulla stampa e progetti editoriali. Abbiamo incontrato Fausto e Guido per scambiare qualche chiacchiera sulla loro storia e su molto altro.
1. Come è nato TEMP?
(F): Ci conosciamo dai tempi del liceo, poi abbiamo intrapreso lo stesso percorso al Politecnico di Milano e nel 2007, dopo piccoli lavoretti, abbiamo unito le nostre forze e così è nato TEMP.
2. I vostri lavori sono piuttosto vari: c’è anche spazio per il web.
(G): Il web e tutta la rivoluzione immateriale è un aspetto per noi piuttosto recente, che ci ha coinvolto e ci coinvolge inevitabilmente. Nel nostro percorso c’è stato un periodo in cui abbiamo lavorato molto ai video. Ciò che ci appassiona di più sono i lavori stampati, con un’attenzione particolare alla carta e alla progettazione per la stampa con un approccio decisamente artigianale.
3. Il vostro stile appare rigoroso, formale, piuttosto elegante. È solo un’impressione o può essere vero?
(G): Dipende. Se per “rigoroso” intendi un lavoro fatto con una certa cura, cesellato, ragionato, sono d’accordo; se invece “rigoroso” significa un lavoro serio, pesante, scolastico o di maniera, allora non ci siamo. In ciò che facciamo di sicuro c’è una forte componente di studio e di progettazione, ma talvolta il tutto è creato in maniera scherzosa. Direi, quindi: l’approccio di sicuro è rigoroso, lo stile cambia da cliente a cliente.
4. Per quanto riguarda la carta stampata, qual è la vostra filosofia?
(G): Ci è capitato a volte di lavorare con budget ridotti e tirature limitate, pertanto ci siamo ingegnati per trovare degli altri strumenti, più artigianali e meno convenzionali, invece di preferire sbalzi, stampe a secco o verniciature. Ci sono così tante soluzioni, a volte poco seguite, che possono rendere tantissimo con una spesa veramente bassa. Nella stanza qui accanto ci sono due stampanti enormi Risograph che nessuno usa più da secoli perché anacronistiche.
(F): In sostanza sono dei duplicatori con un tamburo sul quale viene applicata una matrice di carta sottilissima che forellata dove passa l’inchiostro. Un po’ di anni fa c’è stato un vero boom di queste stampanti, usate molto negli studi grafici. In realtà le conoscevamo da prima perché il copy-shop da cui ci riforniamo (e al quale hanno dedicato un libro autoprodotto, gentilmente regalatomi!, n.d.r.) aveva una di queste macchine praticamente inutilizzata e della quale ci siamo innamorati alla follia.
(G): È una stampa a un colore, con un retino a bassa definizione che fa un effetto “sgranato”. Ha un sapore più caldo, genuino e autentico: questo è il bello, sono stampe uniche perché ognuna è diversa. È proprio questo che intendo con vera materia che si può ripescare e toccare. Ecco perché prima, parlando del web, parlavo di “immateriale”. Un timbro su carta è raro, certo, ma è per sempre. Ad esempio: nel 2006-2007 abbiamo realizzato un flyer/cartolina per un evento. Marco, rompendosi pesantemente le mani con scalpelli e martelli, aveva preso un blocco di legno di noce e ha scolpito il simbolo che avevamo creato per poi riprodurlo come timbro. O ancora quando abbiamo scoperto una reazione chimica pazza causata dall’ammoniaca spruzzata su un qualcosa di prestampato: la stampa si rovinava e produceva un colore assurdo. Una gran libertà di sperimentazione e…tantissimo tempo libero.
5. E questo lato di sperimentazione è mantenuto nei lavori su committenza?
(F): Beh, non sempre. La sperimentazione si tramuta in una profonda conoscenza di quello che si può fare e degli strumenti, anche con una stampa più classica. Sviluppando il lavoro, vagliamo ogni possibilità – anche con i tipografi, se sono ben contenti di provare cose nuove e più interessanti.
(G): E ancora: scandagliando il ventaglio delle opzioni vagliabili, si può risultare non convenzionali adottando tecniche solitamente usate per x su y. Ad esempio: hai un volume con pochissime pagine e applichi una copertina rigida e cartonata. Può non avere senso, ma è un ribaltamento. Il discorso della sperimentazione vale anche per il web. Ogni volta che ci si trova a pensare a un sito, si cerca sempre di mettere una cosa diversa, un elemento che distingue quel lavoro da tanti altri uguali. La cosa fondamentale è che dietro ci sia sempre un progetto, che non è un modo di dire: quello che può essere proposto come un format o uno standard, per noi non esiste. Ogni volta per noi è tabula rasa, per questo dobbiamo conoscere perfettamente tutto del cliente, del lavoro, di cosa fa; in questo modo abbiamo imparato tantissimo.
Progettazione e format sono modelli di business differenti, certamente. Nell’ambito del marketing o della pubblicità, non vendi strettamente progettazione o design, ma qualcosa di diverso. Infine, ci tengo a sottolinearlo: la nostra struttura è microscopica: siamo in tre e possiamo permetterci di dare tutta l’attenzione necessaria a ogni passo, anche agli aspetti più piccoli e trascurabili.
6. Uno dei vostri capisaldi è la progettazione editoriale. A tal proposito, la rivista cartacea è sempre più considerata come un bene di lusso, un po’ perché più dilazionato nel tempo (i mensili diventano bimestrali), un po’ perché curata e progettata in ogni dettaglio, con un costo e un aspetto grafico paragonabile a un libro di design. Che ne pensate? E quali sono le riviste che reputate con un buon equilibrio grafico e di contenuti?
(F): È vero quello che dici, e credo sia dovuto alla necessità di emergere, farsi notare, differenziarsi. C’è un notevole sovraffollamento di riviste, magazine, informazione e penso sia fondamentale investire economicamente e creativamente sull’aspetto progettuale. Il fenomeno è positivo perché c’è un ottimo progetto dal punto di vista grafico, però non credo che questa cura sia un grosso investimento a livello economico per una casa editrice o una rivista.
(G): A proposito di riviste che apprezziamo, sicuramente Apartamento e, se vogliamo essere di parte, Rivista Studio. Apartamento è valido dal punto di vista dei contenuti e da quello grafico. Spesso e volentieri, però, se una rivista è buona graficamente ha delle grosse lacune nei contenuti, e questo aspetto non aiuta sicuramente un certo modo di fare comunicazione. Emerge un modello falsato, sì evoluto nel rappresentare informazioni, testi e immagini, ma percepito come settoriale e snob e senza contenuti.
(F): O ancora Monocle. Ma il problema, se vogliamo definirlo così, è che è di livello: i contenuti non sono per tutti – per carità, che poi le cose non devono sempre essere per tutti. Sicuramente è una rivista coerente, poco modaiola, giusta come impostazione grafica per i contenuti che tratta.
7. Si parla tanto di ridisegnare le notizie e dare una forma, anche attraverso l’infografica. Voi che ne pensate?
(G): Lo ammetto, reputo l’infografica un sintomo di tutti quei discorsi accademici triti e ritriti e di quelle diatribe tra forma e contenuto che lasciano il tempo che trovano. Sono dell’opinione che nel mondo non interessi a nessuno dell’infografica da 20 anni – in più, l’infografica stampata, nell’epoca di Internet, è un discorso veramente passato e poco utile. Se si prende uno dei quotidiani più venduti, è un profluvio di tabelline, freccine, torte: mi chiedo se serva davvero.
In tutta franchezza, credo che l’infografica sia un arrampicarsi sui vetri, un alibi sterile alla crisi del lettore e della carta stampata. I giornali non vendono perché la gente va in giro col tablet e se ci sono più di 140 caratteri non legge. Non è colpa di nessuno, è solo un segno dei tempi.
8. Cambiando decisamente argomento, che pensate della cultura del remix e del mash-up?
(G): Una cosa è certa: mi diverto molto a guardare su YouTube video di canzoni mash-uppate. Se vogliamo essere seri: ultimamente si sta remixando tanto senza mettere troppe cose nuove. E se ci sono cose nuove, sicuramente non si mischiano con quelle già fatte. È il classico discorso dei corsi e ricorsi storici: il Minimalismo e il Razionalismo, poi la cultura pop degli anni ’60 e ancora l’avvento del computer e l’era delle infinite possibilità, poi ancora il ritorno alla pulizia assoluta. È un gioco, no?
Sono però del parere che, nel fare queste operazioni, bisogna conoscere la regola, applicarla e poi romperla. Non credo nei calderoni né tantomento sono un sostenitore del “conosco qualcosa, butto dentro a caso e vediamo l’effetto che fa”. Bisogna scegliere sapientemente come bisogna rompere gli schemi.
(F): Sono d’accordo con Guido: mi piace se il remix è qualcosa di studiato e ragionato, non se segue la moda o il flusso del momento.
9. Ultima domanda: è uscito qualche tempo fa un libro che s’intitola Pretty Ugly e raccoglie degli esempi di graphic design volutamente brutto o imperfetto. Designer con una formazione accademica che hanno ricercato soluzioni grafiche e font smaccatamente anti-estetiche. Cosa ne pensate?
(G): Beh, gli Åbäke hanno sempre fatto queste cose senza essere così contestualizzati. Secondo me troppi cavalcano quest’onda – senza poi avere una formazione accademica. È un gioco diventato sempre più di maniera, mentre all’inizio era avvertito come qualcosa di sovversivo, contro il ritorno del Modernismo troppo spinto e preciso.
(F): Sono d’accordo, bisogna essere dei profondi conoscitori della materia per rompere le regole. Mi viene in mente un episodio molto divertente: non mi ricordo quale graphic designer, durante un viaggio in India, si era fatto stampare da un service del posto un biglietto da visita trahissimo, con tanto di gradiente. Il biglietto sembra infatti un qualcosa di super-contemporaneo e fatta con intento scherzoso e dissacratorio.
(G): C’è poi chi assorbe una tendenza e la rielabora, ripartendo da qualcosa di nuovo e chi invece, di maniera, continua a fare cose che sono assolutamente fuori dal contesto e che generano la moda e cavalcano sempre l’hype. Bisogna stare molto attenti, è una questione di distinguo: tutti copiano tutti, è chiaro, la chiave è mettere qualcosa di tuo.