Illustrazione di Davide Barco
All’All Star Game scorso si era scritto nelle scarpe SGP, che non è un omaggio a SpaceGhostPurrp, ma un modo per ricordare da dove è partito prima di arrivare a quella sera di Febbraio a Houston.
Perchè quella di Marco Belinelli è una storia che parte da lontano, da San Giovanni in Persiceto, ma arriva all’ombra dell’Alamo, in compagnia di Tim Duncan e di un anello che lo consegna come prima cosa alla gloria eterna del basket italiano.
Draftato nel 2007 dai Golden State Warriors, si è subito scontrato con la dura realtà, quella che lascia poco spazio alle favole: minutaggi ristretti e statistiche da ultimo della panchina. Fosse stato qualcun altro magari avrebbe dedotto che la sua terra di conquista è l’Europa, che non ha la stoffa per entrare in una rotazione NBA.
Ma Marco Belinelli è un testardo, uno che ha due palle quadrate (e tende a palesarlo) e se vuole una cosa lotta per ottenerla.
Vicino a CP3 ha capito quali posizioni del campo privilegiare, a Chicago ha imparato a giocare in un sistema compatto dove tutti sono utili e nessuno indispensabile, a San Antonio ha fatto fruttare tutti questi insegnamenti.
Ora è lì, ammantato della bandiera italiana sul podio dei vincitori, dietro ad Adam Silver che sta per consegnare a lui e a tutti gli Spurs il Larry O’Brien Trophy.
Sembrerebbe quasi il prodotto di un qualche sceneggiatore Hollywoodiano con la fissa per i lieti fini, ma il protagonista della storia non è un personaggio piatto, uno stereotipo da film di incassi.
E’ innanzitutto un ragazzo che ha sofferto fin troppe vicende che sapeva non gli spettassero, un ragazzo, un vincente, che lontano dai coriandoli e dai riflettori dell’AT&T Center non può fare altro che sciogliersi in un pianto liberatorio.
E’ questo il Beli che vogliamo, è questo l’esempio sportivo che dobbiamo presentare alle nuove generazioni.
Grazie Marco.