“Aroma Morango” è l’assolato pomeriggio in otto tracce di Oliviero Farneti, noto come Ö.F., puntato e con dieresi sulla o.
Il disco, uscito per la nuovissima BlackLodge, è un mix di psichedelia ispirata ai Flaming Lips, indie-rock che saltella per campi elettronici e un pop leggero che culla al suono di falsetti, Farfisa e gioiose chitarrine.
Questo è quello che vedo io. Qui sotto, invece, ce lo racconta Ö.F. stesso nel consueto track by track.
Il disco è stato registrato nel 2012, principalmente durante le pause pranzo (all’epoca peraltro avevo ancora un contratto di lavoro a tempo indeterminato). Avrei voluto portarlo a termine in occasione della nascita di mia figlia: l’obiettivo prevedeva una stampa in CD-R e una distribuzione manuale, tramite cassetta della posta, ai miei condomini: una excusatio non petita per i vagiti notturni che di lì a poco avrebbero dovuto sopportare. Ovviamente non ci sono riuscito, e non solo per le due settimane di anticipo del parto. Svanito il progetto iniziale, il tutto è rimasto lì a decantare, e la Black Lodge è intervenuta giusto prima del sopraggiungere delle prime muffe. Alcuni brani sono relativamente recenti, ma altri sono decisamente anziani sebbene, per vari motivi, non siano riusciti a trovare la loro strada in uno dei gruppi in cui ho suonato.
ATTILA
L’idea è quella di dipingere il processo di riconoscimento delle proprie maschere come un videogioco arcade anni ‘90, di fatto ridimensionando la prosopopea che rischia di assumere tale autoanalisi, specie se più ostentata che affrontata con la dovuta costanza e profondità. Ma, come in un gioco di specchi multipli, fare questo significa riconoscere un’ulteriore maschera, e così via.
Sembra strano ma non posseggo una chitarra acustica: quella che ho usato per le registrazioni mi è stata prestata da Vittorio, mio sodale in moltissimi gruppi, che ha poi effettuato anche il mastering. Se qualche feticista di organi dovesse inspiegabilmente leggere queste righe, sappia che il disco è monpolizzato dal suono dell’Eko tiger, ma qui e solo qui ho usato un Farfisa. Nella sezione “astratta”, che mette in scena l’attività di riconoscimento ed eliminazione, mi sono permesso di usare un theremin e uno zither mezzo distrutto.
A LAUGHABLE SELF DEFENSE
La canzone era stata proposta agli Spagetti Bolonnaise, ma non ha mai potuto essere realizzata insieme a loro, quindi ha subito una de-fiatizzazione, un’iper-tastierizzazione e soprattutto una chitarrizzazione.
Recentemente ho ritrovato il primo demo che avevo buttato lì per fermare l’idea: era talmente lenta (BPM: 20?) che una sola strofa durava di più di tutto il disco finito, o quasi.
La Black Lodge l’ha scelta come ariete estivo e Giuditta ha realizzato di conseguenza il primo dei suoi tre meravigliosi video.
PANOPTICON
“Sorvegliare e punire” di Foucault non si dimentica facilmente, ma mi sono limitato al titolo: per il resto si parla –più o meno- della fatica che provano gli occhi nel dover sempre rimanere aperti a vedere. Il pezzo ha avuto anche una breve vita di gruppo: l’avevamo arrangiata con i Lava Lava Love, suonandola talvolta anche dal vivo: sarebbe stato il mio unico apporto da autore, ma sono uscito dalla band prima che potesse finire su disco. Sommerso dalle distorsioni, si aggira spaurito anche uno stilofono inudibile.
ELECTRIC BROOM WIZARD
Non è uno strumentale: anzi è l’unico testo di cui possa dirmi soddisfatto. Esprime al meglio lo sforzo maschile per acquisire le giuste competenze in ambito di pulizia domestica. Il brano è antidiluviano: risale, se ricordo bene, alla prima versione dei Pilar ternera, con solo me e Sara (Dagger Moth). All’epoca ero certamente più ingenuo in fatto di impostazione teorica, ed infatti suonavo in modo migliore e molto più spontaneo. Il mandolino è doppiato sull’ottava bassa da una mandola proveniente dalle Canarie, e si capisce definitivamente lo strapotere delle maracas sull’impianto del disco: la comprensione del loro fascino la devo ai MiceCars.
COUNTERCLOCKWISE
I paradossi temporali sono una buona scusa per attaccare il comodo vittimismo di quando ci si crede talmente occupati da non avere tempo per nulla. Di gran lunga l’arrangiamento con il maggior numero di sovrincisioni (c’è persino un ukulele latente), forse troppe, trova il suo bilanciamento nel finale a bossa nova, giustamente più scheletrico.
BELZEBOTH
Di ispirazione elvetica, la canzone parla dell’eterna lotta tra il Male incarnato e il Male non incarnato, legata fascinosamente alla fermentazione del luppolo. Il suono della Danelectro (grazie anche all’amplificatore prestatomi da Luca dei Fake p) mi ha permesso di realizzare il sogno di qualsiasi musicista sano di mente, ossia suonare un cortissimo assolo surf su una base ritmica reggaeton. In seguito la chitarra si limita alle stesse due note, adagiate su un tappeto di quindici accordi diversi. E, ah, il vecchio amore per le voci filtrate.
DREAMCROSSING
La domanda sulla natura delle nostre incarnazioni nei sogni altrui è un palese furto da “Rayuela” di Julio Cortazar (Da altre parti), ma risfogliando il libro per l’ennesima volta non sono riuscito a trovare il capitolo. Se fosse un errore sarebbe ancora meglio.
Talvolta mi ricordo di quanto sia meraviglioso suonare il basso, e di quanto sia divertente il pedale del tremolo manipolato in tempo reale. Il Moog regna sovrano in tutto il disco, gli archi sintetici Elka si nascondono qua e là, ma qui il palcoscenico è rubato dal Monotron, che domina lo stacco anche in sede ritmica. Prima o poi riuscirò a far suonare una drum machine come un batterista jazz sintetico, ma sempre e rigorosamente coi suoni marci da rhythm box integrata ad un organo.
SPUTNIK
Niente da fare, non riesco proprio a superare la mia passione infantile per il suono del rhodes. La potenza liberatoria di limitarsi a due strumenti, almeno per il tema principale, è un toccasana per l’arrangiamento. Questa è dedicata al mio Sputnik personale, lei sa chi è. Anzi, non ancora.