Il meraviglioso declina nella bocca dell’Io. La prima plurale si disintegra nella prima singolare, nella claustrofobica cavità orale dell’Egomostro.
Entro pure.
È uno scenario post-bellico, quello della de-realtà: non c’è noi, non c’è tensione. Resta un campo di macerie, quello dell’assenza, dove l’assente è l’altro e il doppio non riesce a costruirsi, costretto all’erosione dal diluvio di individualità. Egomostro è il disco del soggetto, dell’io che è super solo nelle intenzioni, che di gigante ha solo gli slogan che s’inventa per avere l’approvazione degli altri, che è allo specchio solo con se stesso. L’io per l’io e mai per sé.
Il linguaggio di Lorenzo si fa universale, magnifica il nulla. Lo ricopre di aggettivi altisonanti, di una semantica che lo avvolge nei vestiti della sera, quelli con le paillettes che brillano di carenze. L’egomostro è l’obl-io. Vestito del nero che avvilisce la personalità, marcia al funerale di se stesso e magari lo rende immortale. Con l’autoscatto. L’io che condivide (ma poi con chi?), che misura l’autostima con dei pollici blu, che è statuina nel delirio collettivo del mostrarsi, dell’esporsi, per qualsiasi prezzo, alle vacanze poco intelligenti sui social network.
Qui non si sta sul pulpito. Non si sta dall’altro lato. Egomostro è l’altro, egomostro sei tu. Sono io. È Lorenzo che non porge guance nemmeno a se stesso e su quest’altalena noir in cui anche la forma canzone è disintegrata fa girare tutti. Nessuno escluso. Maledetti italiani, maledetto me. Che ho sempre qualcosa da dire, ma poi mi tiro indietro quando si tratta di esistere. Che non mi importa più di arrivare per tempo, tanto l’Italia perde in partenza negli alibi miei e in quelli degli altri. Che mi affido a Brezsny, che credo alla lotta anti- mafia, sì, ma solo da quando è diventata mainstream.
Siamo i mostri dell’io, quelli delle mancanze. Chissà in quale girone dell’inferno finiremo mai. Per ora affondiamo tutti negli oceani di paure navigati da Colapesce, in compagnia di illustri scrittori e degli sciacalli della tv. Le barchette di carta erano sold-out, siamo caduti giù. Fluttuiamo per sonorità esotiche, per derive tropicali e i colori scuri del mediterraneo. Non guardiamo più tanto alle americhe, restiamo dannatamente immersi nei fondali italiani tra Battisti, Panella e Napoli Centrale.
Ma l’abisso è un avvilimento di comodo, l’ultimo svilimento dell’io. La scusa per dileguarsi a mai più, per dissimulare la perdita di se stessi con la fuga. Esiste una sola salvezza all’esil-io ed è l’immagine dell’altro, la fusione. Quella che nemmeno Copperfield può far svanire. La sostituzione di me con “un onesto noi” che sgonfia l’isteria dell’eccentricità.
“Venga il regno dell’uno per l’altro, quasi che fossimo i vocaboli d’una lingua nuova e strana in cui è perfettamente lecito adoperare una parola al posto di un’altra.”
Passami il pane, tra le macerie del dopoguerra. “Con un leggero malessere riconquistiamo la bellezza”, ritorniamo alla prima plurale e andiamo pure.
Foto di copertina di Fabrizio Vatieri.