Il 30 marzo scorso è uscito (per Trovarobato) “Die”, il secondo disco di Jacopo Incani, meglio noto come IOSONOUNCANE. Un ritorno a distanza di 5 anni da “La Macarena su Roma”, esordio sulla lunga distanza con cui il nostro aveva raccolto consensi pressoché unanimi e a cui era seguito un tour lunghissimo.
Proprio le fatiche del tour avevano convinto Jacopo a staccare per un po’, tornando nelle sue terre (è nativo di Buggerru, piccolo paese sul mare nell’Iglesiente) e dedicandosi alla terra e alla composizione.
“Die” è un disco importante e imponente, un’opera (per usare le parole del nostro Livio Ghilardi) “estremamente moderna, capace di attingere a qualsivoglia influenza artistica e al contempo di suonare personale, originale e innovativa”. Tutti ottimi motivi per indagarla un po’ più a fondo; tutti motivi che ci hanno spinto a parlarne con Jacopo e farci raccontare retroscena e sensazioni che ne hanno accompagnato la nascita e la pubblicazione.
Il giorno dell’uscita di DIE hai scritto: “oggi DIE esce ufficialmente, dopo 4 anni di lavoro intenso in cui ogni singolo dettaglio, ogni suono, ogni accento, ogni parola, ogni singolo significato evocato da ogni singola parola, ogni nota d’ogni singola melodia e di ogni singolo strumento, ogni accostamento timbrico è stato curato con precisione maniacale, scrupolosa, guidata da un’idea chiara e fortissima del risultato da ottenere”. Quanto di te c’è dentro DIE?
Direi tantissimo, soprattutto del mio metodo.
Leggendo i crediti del disco, oltre a te e Bruno Germano (che ha curato la gran parte delle registrazioni, l’ha co-prodotto ed ha anche suonato i fiati e le percussioni) ho contato altri sei musicisti, da Paolo Angeli (che suona la chitarra sarda in Buio) ad Alek Hidell all’elettronica (in Carne), passando per Serena Locci ai cori, Mariano Congia alle chitarre (classica ed elettrica), Simone Cavina alle percussioni e Paolo Ranieri alla tromba. Il numero delle collaborazioni forse spiega questa sensazione di avere di fronte un suono stratificato, una specie di sedimentazione di flussi sonori che sembrano uscire direttamente dalla terra – o dalla tua testa, se preferisci. Con il risultato che ad ogni ascolto si finisce per cogliere un diverso aspetto, forse anche un diverso significato della canzone. Mi chiedevo se la scelta di passare tutti questi flussi attraverso i tuoi campionatori avesse lo scopo di rendere il tutto più omogeneo, se insomma il metodo fosse un aspetto essenziale del processo creativo.
Piccola precisazione: Bruno Germano non ha suonato i fiati ma li ha arrangiati insieme a me. Arrivando al metodo: è sempre un aspetto fondamentale e strutturale di una qualsiasi creazione, che si parli di sedie, romanzi o decorazioni natalizie. Nel caso di questo disco è andata così: ho coinvolto molti amici perché ne sentivo il bisogno, ne avevo il desiderio e perché fin dal principio ho percepito DIE come un lavoro corale. Ho chiesto loro di fare quel che volevano e potevano arrivando ad avere una quantità enorme di registrato. Campionatori e computer, che ho adoperato come cacciavite e martello, mi hanno permesso in un secondo momento di sezionare e ricomporre questo materiale. Questo, incidendo sul processo, ha conseguentemente inciso sul risultato finale, che qualcuno ha giustamente definito, dal mio punto di vista, come un’orchestrazione di campioni.
Ho letto che la parte vocale è stata l’ultima ad essere completata, dopo essere stata rivista più volte, sulla base della forma sonora che stavano via via prendendo le canzoni. Parlando di Anima latina, Lucio Battisti spiegava di aver messo la voce “in mezzo alla musica” per stimolare gli altri a capire le parole e soprattutto “a fare attenzione a ciò che sta succedendo, a ciò che accade nel momento in cui si ascolta un brano non perché questo sia piacevole, ma perché ascoltare significa qualcosa”. In alcune interviste hai detto che alcune canzoni di “La macarena su Roma” non sono state capite. L’eccessiva attenzione che siamo abituati a prestare alle parole, il fatto che queste – soprattutto nella canzone d’autore – spesso finiscano per mettere in secondo piano quello che sta accadendo intorno può portare a perdere di vista il significato di una canzone e di un intero disco?
L’ultima cosa che ho completato in realtà sono stati i testi, non le parti vocali. Salvo alcune piccole modifiche, le melodie sono state la prima cosa che ho fissato e anche quella che mi ha guidato nella scelta dei brani da inserire nel disco. A me piace la voce dentro il mix, non per ragioni intellettuali ma semplicemente estetiche. Se i testi sono belli e funzionano si impongono anche se sovrastati dal suono. Detto ciò non è comunque un mio problema il modo in cui le singole persone ascoltano un mio brano. Si fa molta attenzione alle parole delle canzoni nel nostro Paese, è vero, un po’ per formazione direi e un po’, probabilmente, perché gli ultimi decenni hanno piegato la schiena a tanti, portandoli a confondere l’orlo dei propri pantaloni con l’orizzonte. Si cerca consolazione nelle canzoni, si è mossi dal bisogno di far parte di un qualche gruppo sociale per sentirsi addosso una qualche identità. Ma anche di questo non mi preoccupo, non mi riguarda. Ognuno è libero di fare quello che vuole. Io faccio le mie cose in totale indipendenza e mi spremo per farle sempre meglio. Questi sono gli unici doveri ontologici che ho e li ho nei confronti di me stesso. Quello che probabilmente intendevo parlando de La macarena su Roma è che la centralità della parola ha fatto credere a tanti che io fossi solo quello, ovvero una piccolissima parte di quello che realmente sono.
LMSR era un disco apparentemente molto più didascalico, a mio parere soprattutto perché costruito intorno ad una narrazione di esperienze personali ma potenzialmente comuni a molti. Stavolta hai scelto di raccontare due esseri umani, un uomo e una donna, che vivono la stessa esperienza di solitudine assoluta, ma da due punti di osservazione diversi (l’uomo è in mezzo al mare e teme di morire, la donna guarda la burrasca dalla terraferma, terrorizzata dall’idea di non rivederlo mai più). Il concetto è davvero così diverso da quello alla base di LMSR, o piuttosto la novità è che pur partendo da un’esperienza personale (mi viene da pensare alla decisione di staccare e di tornare in Sardegna dopo la fine del tour, nel 2011), hai scelto di raccontarla per il tramite di una storia più astraibile e “spersonalizzabile”?
Si parte sempre da un’esperienza personale per poi trasfigurarla nell’inevitabile processo di messa in scena. Verità e arte non hanno legami di parentela. Per DIE ho avuto istintivamente il bisogno di arrivare a forme archetipiche attraverso una trama puramente strumentale che permettesse l’utilizzo di un linguaggio essenziale e privo di ogni vezzo estetizzante.
Parlando del già citato lavoro di Bruno Germano, lo hai più volte definito “salvifico” per la sua capacità di darti scadenze e arginare un perfezionismo che a volte rischia di sfociare in cupio dissolvi. Cos’è che ti preoccupa di più nel processo creativo, la sensazione che un pezzo all’apparenza completo sia ancora completabile o che non sia efficace e non riesca a dire quello che avresti voluto?
L’unica cosa a preoccuparmi – o meglio, occuparmi – nel processo di scrittura e arrangiamento è il bisogno feroce di vedere realizzato pienamente quel che immagino. Tutto qua. Ogni opera è perfettibile, sempre, e questo lo è a maggior ragione per un perfezionista al limite dell’ossessività come me. L’unico problema nella lavorazione di DIE è stato il dover tenere a freno tutte le idee che quotidianamente venivano fuori. In questo il lavoro di Bruno è stato fondamentale, imponendomi scadenze, scelte, tempi.
Un’ultima domanda, secca. Hai la sensazione di aver fatto un disco capace di sopravvivere allo scorrere del tempo?
Si.