Per chi, come me, è cresciuto bombardato dalla cultura pop, da Mediaset, dai talk show, dalla musica elettronica e quant’altro, riscoprire i cantautori italiani non è facile. C’entrano di certo le tue amicizie, magari le passioni dei tuoi, e la loro forza nel riuscire a trasmettertele. Nulla di tutto ciò però è scontato, ed è anzi molto più facile perderlo di vista, il cantautore. Che per sua indole magari se ne sta un po’ sulle sue, a lasciarci scannare sui temi più futili che Twitter ha reso di un’importanza gigante. Il cantautore si ripara dalla radioattività della vita moderna, come il fratello di James McGill in Better Call Saul.
Lo vedete? Non se ne esce vivi…
Mi trovavo a Napoli dai miei quando il mio contatto Skype ha cominciato a squillare. Ero con il computer in grembo, con una qualche puntata di una qualche serie tv appena finita, come a scandire la mia vita. Mi chiamava Fausto che, guarda un po’, fa il cantautore. Fausto era appena rientrato da una data, dopo aver aperto il concerto di Caparezza a Milano.
A questo punto avrete capito che sto parlando di Edipo, che tra un concerto e una prova del suo nuovo live si ferma, come tutti i cantautori sanno fare, per dedicarmi un’ora per discutere del suo nuovo album: “Preistorie di tutti i giorni”. E allora partiamo proprio da lì, da quel titolo.
Vorrei subito chiederti conferma di una cosa che ho letto in rete. Premetto che non sono un gran esperto di cantautorato italiano.
Tu cosa ascolti?
Scrivo (e quindi ascolto) ultimamente tanto di nuovo rap. Poi musica elettronica in generale, con quella nuova “scena” italiana, anche se ultimamente mi sono ri-avvicinato alle famose chitarrine.
Avevo letto da qualche parte che il titolo “Preistorie di tutti i giorni” viene da una specie di “caricatura” di una canzone di Riccardo Fogli.
È una roba vera, o pura costruzione giornalistica?
Questa mi mancava (ride). Non c’è un link sinceramente, sarebbe bello avere la gag, ma purtroppo non c’è davvero collegamento. Quando abbiamo scelto il titolo abbiamo googlato, e pur notando il titolo simile ci siamo detti chi se ne frega e basta. Purtroppo niente dissing con Riccardo Fogli. Anche se ultimamente i dissing fanno vendere tanto.
Direi proprio di sì. Tu vieni dall’hip hop in effetti, no?
Si. Vengo dall’hip hop, quello vero. Seppur ai miei 18/19 anni ero un po’ un cazzaro, però ho vissuto un po’ la golden age, gli anni 90. Per dire: collaboravo con Bassi Maestro, coi Sottotono, quel mondo lì insomma. Si andava ai concerti a vedere i Sangue Misto. Si bigiava scuola, si saliva su di un treno e via a Bologna ai concerti. Dopodiché negli anni ho smesso di fare rap, ho abbracciato gli strumenti, ho fatto studi come tecnico del suono. Mi son poi rimesso a scrivere, il primo disco (una cosa un po’ naif se vuoi, quasi buttata lì) è andato bene, è piaciuto ad un’etichetta, da lì se ho fatto un secondo. Poi è arrivato il contatto con Dargen D’Amico, che mi ha chiesto se mi avesse fatto piacere che lui patrocinasse il mio disco e quello è stato un ottimo modo per conoscerci e lavorare insieme. Infatti tutto l’album porta la sua produzione artistica.
Quindi sì, il rap mi appartiene come colore. Lungi però da me dire che sono un rapper, perché c’è gente che fa rap, che fa HH. Ed è una cosa che ha dei canoni per esserci dentro. Puoi anche fare qualcosa che derivi da lì, ma mischiato con quello che hai ascoltato nella vita. È anche bene che sia così, dai.
Tu stesso mi hai detto che, crescendo magari ti approcci più alla musica italiana. Poi magari uno incontra il jazz eccetera.
Certo, sono fasi di crescita. A mio parere dipende moltissimo dal tuo personale momento di vita. O almeno, per me è sempre stato così.
Prendo coscienza del mondo intero, appuro quanto bello sia, dopodiché cerco il contatto prima con le cose a me vicine, per poter meglio capire quelle lontane, magari. Ma nella musica così come nelle letteratura, o nel cinema.
L’esterofilia è un po’ insita negli italiani. Alcuni generi non è un mistero che nascano fuori. Così l’HH o il jazz, ma anche l’elettronica di un certo tipo in America piuttosto che in Germania. Secondo me siamo in un momento dove molto è stato detto e molto è stato fatto. Quindi, quando si cerca di modificare vecchi generi per crearne dei nuovi, a quel punto, secondo me siamo competitivi. Se si prende dal passato e si rimescola, allora perché no, un produttore italiano può fare dei beat pazzeschi uguali o superiori a quelli americani.
Poi certo, per alcune cose tipo la pizza: i napoletani la faranno sempre meglio, non ce n’è. Però magari uno chef francese se ne inventa una diversa ed è buonissima.
Come vivi questa sorta di ancora, che soprattutto i media generalisti, ti attaccano di “rapper sui generis”?
Guarda, alla fine il rapper è quello che parla su un beat e mette i concetti in rima. Quindi, la definizione può anche starci, anche se a quel punto anche alcuni pezzi di Gaber o di Jannacci sono rap. Non è l’epiteto che poi conta.
Però sì, il rap è un mezzo perché ti permette di poter mettere più concetti in una canzone. A me piace scrivere, si capisce credo. Anche la stessa musica, per me è stata sempre un mezzo per scrivere. Scrivere delle canzoni, delle mie considerazioni. Quindi non so, non ho particolare tabù se uno mi definisce un rapper. Quello che non vorrei magari, è essere definito arrogante o comunque uno che si proclama rapper a tutti i costi. Avendolo frequentato quell’ambiente, so quanto integralista è. Ed è un bene che lo resti, magari si salvaguardia. Perché anche se c’è comunque uno zoccolo duro, il rap è sdoganato nel mainstream, nel commerciale quasi.
Per concludere: direi che magari per alcuni giornali un po’ più generalisti è facile parlare di rapper, buttarti in un calderone. Però io penso di avere un’unicità tutta mia in quello che faccio. Non voglio fare rap, credo si capisca. Poi certo, il pubblico disattento rimarrà sempre tale, chi è incuriosito invece, si andrà ad ascoltare le cose riuscendosi a fare un suo orecchio.
Come cambia la vita del disco nel passaggio in Major?
Magari cambia nel senso che hai dei canali privilegiati, come le radio. Oppure delle situazioni, affini alla major, comunque diverse.
E nella produzione del disco?
Beh, ovviamente se fai un disco con una major (in questo caso la Universal, ndr) è il caso di avere un paio di canzoni un pochino più catchy. Ma quella è una cosa che fai comunque. È inutile nascondersi dietro un dito. Il singolo, quello che viene scelto come tale, magari non è il brano più alto del disco. Ma quello un po’ più facile, che può essere un modo per farsi conoscere, per irrompere sul mercato. Sicuramente se lavori in una major, qualche freccia al tuo arco nel disco devi avercela. Però ti dico, io anche nei dischi precedenti ho messo canzoni più leggere, quindi non è che mi senta denaturato.
Non c’è stata una imposizione particolare, ho avuto libertà e fiducia. Sono stato io stesso che ho cercato di fare canzoni più rotonde, perché magari sapevo che la major avrebbe lavorato in un certo modo, e non avrebbe avuto senso fare un disco molto scuro. Ma io stesso non ero in quel mood.
L’unico rammarico è che per motivi promozionali, il disco ha avuto una gestazione un po’ troppo lunga. Quindi sì certo, sono contento, sto facendo promozione e i live, però ho già scritto cose che magari hanno un sapore un po’ diverso. Ma va bene, non è certo un problema.
Passando ad “analizzare” un po’ l’album. Mi son segnato alcuni versi che mi hanno molto colpito, e di cui volevo chiederti.
In “Logiche di mercato” ad esempio, tu dici “figli del cantautorato, figli di un dio minore”. Perché?
Prima di tutto era un modo simpatico per chiudere la barra, perché poi dico “figli di un dio minore, mino-ritario, di un Mino Reitano”. Quindi c’è sia l’ironia del dire che siamo tutti figli della canzonetta. Mino Reitano è stato un grandissimo cantante, però è tipo il cantante da matrimonio per eccellenza. Grandissima stima per lui, però appartiene anche ad un immaginario trash se vuoi. Da cui tutti noi veniamo, per quanto poi ci travestiamo da hipster, ci mettiamo i baggie e andiamo a fare le jam, un pochino ce l’abbiam’ dentro quella roba lì. Quindi il verso è anche per dire, coraggio ragazzi non prendiamoci troppo sul serio.
D’altra parte è pur vero che, ad oggi, il cantautorato non è il genere che va per la maggiore, cosa che invece è stato. Dopo di che è cambiata la musica, è cambiato il mondo.
Io sogno un ritorno forte del cantautorato, speriamo dai. Perché poi alla fine la musica cantautorale piace a tutti. Poi dipende dalle situazioni, ma credo che a tutti noi piaccia. Però siamo nell’epoca del tutto subito, tutta energia. Quindi a volta il cantautore per sua accezione viene un pochino denigrato da certi circuiti.
La storia del disco, sembra raccontare, in tante piccole parti, tanti spezzoni, la vita di tutti i giorni, una normalità che tendiamo molte volte a dimenticare. Nel racconto straordinario di chissà quali temi, a volte mettiamo troppo da parte la normalità.
Questo mi ha fatto venire in mente, facendo un paragone letterario, la non-fiction che è poi il racconto della vita reale di chi scrive.
Mi piace la tua osservazione, mi ci ritrovo. Lucio Dalla diceva “è difficile essere normale”. Ed è effettivamente così, siamo subissati da questi input che ci dimentichiamo della piccole cose. Ho raccontato degli spezzoni sì, dei traslochi, delle avventure affettive, della visione del mondo. Cerco sempre di fare robe così, molto scarne e dirette. Di sintetizzare i concetti in pochissime frasi. Sono racconti normali, e la speranza è proprio che la gente si ritrovi in una di queste storie.
Mi piacerebbe approfondire quest’ultima cosa che hai detto. Ultimamente l’attenzione che i fan rivolgono agli artisti potrebbe essere definita da qualcuno quasi ossessiva, grazie anche all’utilizzo dei social tanta gente ci tiene a far sapere che quella canzone magari, racconta parte della propria vita.
Tu come ti relazioni con questo tipo di situazioni?
Succede che la gente ti scriva e ti faccia dei commenti. Io penso sia innata nella canzone la caratteristica di emozionare e di colpire. Io, in modo anche anacronistico, mi sono sempre affezionato ai grandi personaggi stravaganti della musica. E sono stato affascinato da queste vite dissolute, e tutt’ora lo sono. Però credo che tutta questa vita social, abbia portato la gente a sentirsi protagonista, sempre. Quindi non c’è più l’ammirazione per questa vita incredibile, quando tutti hanno la “possibilità” di farla. Quando magari l’artista non ha neanche più senso che la faccia, perché diventa magari ridicolo. E quando lo stesso pubblico è magari più stravagante dell’artista. Si è creata oramai, una parità di tutto per cui la gente ha sete di riconoscersi nelle cose.
Perché c’è un po’ una uniformazione, quindi ci sta che ancor di più adesso la gente si riconosca nella nostre canzoni. Perché appunto raccontare storie troppo “strane” diventa poi fuori luogo. Io abito sui Navigli, ok che forse è una zona anche un po’ particolare, però esco di casa e vedo gente matta e stravagante, che magari andava a fare il banchiere piuttosto che il magazziniere. E io mi dico “caspita, ed io dovrei essere il cantante, quello che fa la vita artistica”, e invece poi me ne torno a casa e bere una tisana e guardare una puntata di una serie.
Quindi alla fine è tutto relativo. Sicuramente per un cantante la cosa più bella è quando uno si riconosce in una canzone dai. È un po’ il gol della musica.
Quello che tutti cerchiamo di fare. Anche perché la canzone serve sempre per esorcizzare un concetto, un concetto che tante volte è di solitudine. Il fatto che altri si riconoscano ti fa sentire bene.
Ci sono diversi elementi che mi hanno incuriosito del disco: capitolo produzioni. Mi sembrano tutte produzioni “normali”, cioè nulla di troppo innovativo o strano. Mentre sembra che oramai nella musica o innovi sempre (non si sa come) o non va bene. C’è invece nel disco questa di voglia di restare?
Sì, assolutamente sì. Questo è stato un disco fatto anche con un produttore nuovo, quindi: bene o male io comincio sempre a scrivere e poi vado in uno studio musicale con un’idea e la porto a compimento. È stato un disco che è stato scritto e registrato in tanto tempo. Quindi quella cosa del suono nuovo riesci a farla, quando fai un disco tutto d’un fiato. Cioè ti chiudi in studio due settimane, e fai un disco che ha quel sapore, con quelle macchine e quell’idea. Quindi per Preistorie era una cosa che nn mi interessava. La musica serve a far uscire i concetti. Secondo me il disco è prodotto e arrangiato molto bene, i due produttori hanno fatto un ottimo lavoro.
Poi certo, se si parla di innovazione sonora, non è questo il disco. Non ci sono passaggi matti o cose così, ma non era quella l’idea.
Tu sei originario del Lago di Garda, e poi ti sei trasferito a Milano. C’è, nel disco, il racconto della periferia che guarda la città (e penso ad alcuni passaggi di “Amarsi in città”)?
Assolutamente sì. In questi ultimi anni ho fatto traslochi, vissuto vicissitudini sentimentali più disparate. A Milano ci sono sempre stato, a volte bene a volte male, a volte con la voglia di ritornare sul lago, anche perché è un posto stupendo.
La mia vita ideale sarebbe tre giorni qua (sul lago di Garda, ndr) e quattro giorni là. Nel disco c’è questa doppia visione, di uno che la città la vive, la sa vivere, l’ha vissuta, conosce i limiti e le pecche della provincia, però ama il posto da cui viene. Quindi cerco di tenere viva la provincia in città, vediamola così. Pensare di scrivere tutto un disco qui a Milano la vedo difficile, perché ti servono delle tue abitudini, anche solo la passeggiata in riva al lago. Sono uno che fa la scorte della città, e poi si rintana al lago a scrivere, anche perché c’è meno casino, sento più miei i luoghi.
Ho trovato nella normalità che racconti, tantissimi spunti, ad esempio: non voglio necessariamente chiederti chi sia Rossana, però c’ho letto una storia che accomuna tante persone.
Ma sì, è la classica storia della tua tipa che se ne va perché “devo cercare me stessa”, poi può essere Madrid Berlino, o che so io. Tu rimani lì e ci pensi.
In questo disco c’è tanto romanticismo, perché si vede che a forza di dai, qualcuno è riuscito a sbloccarmi certe corde. Ho scritto anche canzoni d’amore, più profonde. Però una vena ironica e cinica mi contraddistingue sempre. Nel precedente disco c’era un brano “Cattivo” che ironicamente tirava le staffilate ad un certo tipo di ragazze. E forse Rossana è una versione 2.0 di quella, più concentrata su un aneddoto specifico.
Mentre ero a casa dei miei per le feste, ho incontrato la signora che aiuta mia madre nelle faccende domestiche, che conosco da oramai cinque o sei anni. Lei mi ha detto che il figlio, che lavora in un supermarket, vorrebbe andare a Londra, perché lì potrebbe “crescere” professionalmente parlando. Ho pensato a Rossana.
Si, c’è quest’idea in Italia. Ma io dico vai, fai la tua esperienza, perché comunque aiuta. Tutti noi abbiamo fatto la nostra esperienza.
Però si, il modo in cui lo si dice nel testo è un po’ disilluso, e forse quel “calcio in culo” ti aiuta insomma a prendere quello che hai qua di bello, da un altro punto di vista. C’è anche una chiave ottimista dai. A volte i calci in culo fanno bene.
“Il ciao dopo l’addio fa sempre male”. Se ho interpretato bene (segue spiegazione, ndr), condivido tantissimo la frase. Come nasce?
Si, il senso è quello. Dopo che ti sei lasciato, ma c’è tutto quello strascico perché comunque, ti incontri, hai delle amicizie in comune. E c’è quella timidezza, quell’imbarazzo.
Ed è nata quindi proprio da quelle due settimane lì, quando pensi “cazzo, fino a due giorni fa eravamo lì insieme, e adesso siamo qua a non sapere che fare”.
Come sei entrato in contatto con Yendry?
È stato Dargen che aveva già contattato Yendry, oppure lavorato insieme a lei, non ricordo bene. Quando gli ho detto che mi serviva una feat. femminile. Me la ricordavo a X-Factor e mi piaceva tanto. Poi è anche una ragazza graziosa ecco (ride). Scherzi a parte, ha un gancio soul che ci stava alla grande. Ci siamo incontrati ed ha subito funzionato. E stata bravissima a seguire anche il modo in cui volevo che fossero fatte le cose.
Concentrandoci un attimo sulla questione featuring. A parte Yendry, e ovviamente Dargen, che immagino abbia voluto esserci fortemente…
Si, alla fine è comunque un brano. L’altro era già stato fatto. Il feat. del disco è quello in effetti.
Come mai c’è la voglia di raccontare tutto da solo?
Nel rap c’è questa cosa del feat, perché poi si presta anche al genere. Uno scrive le sue barre, ti trovi, 8 barre a testa e ok. Quando fai canzoni, sviluppi un progetto, e modificarlo è complicato. Come dici tu, magari io vado a cercare un aneddoto, un pensiero singolo, magari arriva un altro aggiunge della roba e ti modifica il significato. Questa cosa qui mi ha fatto un po’ desistere dalla voglia di cercare altre cose. La canzone deve nascere insieme, perché deve nascere prima collaborazione stima tra gli artisti. Nel cantautorato le collaborazioni studiate hanno sempre portato a degli aborti che è meglio dimenticare.
Ci vuole molta spontaneità, amicizia quasi. Le markettone non mi interessano.
Come mi dicevi, è un disco dove ci sono tante punte, tanti pezzi d’amore. Quello che mi ha colpito di più è “Meno male”, dove si assiste ad una triangolazione (non saprei come chiamarla) tra zanzare-fidanzate-cuore, che sono tutte cose che ti fanno perdere sangue.
(ride) Si, quella cosa mi sembrava così banale, che mi son detto possibile che nessuno ancora l’abbia utilizzata?
Quindi l’ho scritta. È una metafora, un modo semplice per dire il cuore è mio e me lo tengo per me.
Domanda cattiva: non so se è un caso, “Terra” che è il pezzo più impegnato, forse un po’ più conscious, è anche quella più lunga, come se ci fossero più cose da dire.
L’unica cosa: non hai un po’ paura che una traccia del genere, in un contesto italiano, possa essere un po’ generalizzata?
Ti dico, qualcuno potrebbe pensarlo. Questo non mi interessa, perché comunque è stata scritta in un pomeriggio, e mi è arrivata davvero dal cuore. Avevo parlato tanto di me stesso, e ho pensato che mi sarebbe piaciuto parlare anche del fuori, senza prendermela per forza con qualcuno. Il disco precedente era un disco contro. Mi piaceva trasmettere qualche messaggio “positivo”, e un punto di vista più lontano.
Ci sono le mie storie ok, ma la macro sequenza di tutto è comunque il mondo. Tutto quello che succede succede perché il mondo sta andando così. Terra voleva essere un po’ la lente sul mondo. Doveva esserci una traccia del genere.
A me piace molto, il testo è molto poetico. È un viaggio, anche se poi non è così commerciale dato che è lunga, astrusa. Se uno va a criticarla c’è un po di malizia e di non curanza. Non mi sembra una paraculata. Se ti senti di ribadire un concetto fallo, l’unica cosa importante è essere se stessi, non snaturarsi.
Secondo me non si dovrebbe ascoltare musica random, ma le cose andrebbero contestualizzate, magari scoprendo qualcosa in più del percorso dell’artista.
Come mi dicevi è un disco molto allegro, felice per certi versi.
Si, è molto up, poi io cerco di tenere sempre concetti profondi in musiche piu rasserenanti. Quindi anche se il mood è positivo, non per forza i concetti sono positivi.
C’è tra questi pezzi, uno che nella sua normalità fa male, che t’ha fatto male scrivere?
Forse Lambrate. Non è stato facile perché comunque è stato scritto parecchi dopo che avevo abitato li, e forse è stato un pezzo liberatorio. Per la malinconia pure. È una canzone malinconica che descrive un posto malinconico e grigio. Ricordando i rientri a Milano, la domenica pomeriggio, che magari pioviggina. Un pugno in pancia, che ti sembra il peggior momento della vita. Poi magari ci ripensi a ferragosto, e quella cosa aveva qualcosa.
Essere nostalgici delle cose brutte, negative è comunque un bene.
Da dove si trova l’ispirazione per un intero disco?
Secondo me non c’è una ricetta. I dischi si dividono in due grandi famiglie: quelli scritti piano piano, come ho scritto io questo. Sono dischi magari compilation, dove metti dentro cose diverse. Oppure fai un diario.
Oppure accumuli un ventaglio di sensazioni, e poi esplodi in studio. L’ispirazione la prendi dalla vita di tutti i giorni se vuoi fare il cantautore. Il quadernino è essenziale, io giro sempre con quello. Sono un collezionatore di cose che vedo in giro.