“Summer of 2006, the beginning of the end of everything I thought I knew. Youth was stolen from my city and I’m left alone to tell the story. This might not make sense but that’s because none of it does, we’re stuck. Love tore us all apart.”
Acqua, kicks cupi senza pietà, uno sparo.
Siamo a Long Beach, Cali, ed è l’inizio di una storia.
La copertina cita i Joy Division, quel buio però è rabbia, seriosa e giovane indignazione: non è mai scappato da niente che non fosse la polizia, quei privilegiati pagati per evitare i conflitti, e puntualmente rivelatisi i primi a cercarli, specialmente entro le comunità nere.
Un corpo a terra, ma i giornalisti scommettono sorridenti: che sia stato un gang member anche questa volta?
C’è poco da ridere, Vince Staples usa la sua naturale propensione alla rima per il proposito primordiale di buona parte della musica black: dare voce a chi non ne ha.
Il (non troppo) tacito intento è smascherare chi si nasconde dietro alle divise per seminare odio; il rap pare l’unico modo per denunciare chi dovrebbe reagire alle denunce stesse.
Lui ci è stato, nelle gang, ma ne è uscito: con lui i qui presenti Joey Fatts e A$ton Matthews, a formare i Cutthroat Boyz, il trio che in qualche modo li ha salvati.
Vince si avvicina attivamente all’hip-hop non più di sei anni fa grazie agli amici di Odd Future, ed è impressionante riscontrare una tale originalità in un ventiduenne, un tempo privo della minima intenzione di divenire un rapper: l’album d’esordio sboccia come la naturale conseguenza dei due lavori precedenti, attribuendo a Vince l’etichetta di un’estetica cruda e specifica.
La mancanza di alternative è finita per essere una benedizione, considerando la precocità artistica di una carriera così inattesa.
Frequenze sotterranee, perché anche d’estate, sul fondale c’è sangue ingiusto.
Le armi da fuoco scaldano ancora di più, del resto.
L’hip-hop anni 2000 è ovviamente la più imponente influenza: la sonorità di “Summertime ’06” appare come un adattamento evolutivo del boom-bap; è notte, i Clipse sono in concerto al piano di sotto.
No ID (Birds & Bees massimo esempio) è il regista di tutto: ma a differenza dell’ultimo di Common, questo album ha un’effettiva sostanza, compici le pesanti compresenze in studio.
Nel mixtape “Shyne Coldchain Vol.2” e nell’EP “Hell Can Wait”, il duo rapper-producer dichiarava gli intenti, mostrando già una direzione precisa.
Ora, nel secondo prodotto commerciale su Def Jam, i tratteggi degli ultimi due anni vengono ricalcati e trascinati negli abissi basso-centrici di DJ Dahi. Ecco un lavoro costantemente palpabile, seppure esteso e non semplice.
La sintonia con Dahi è più che spontanea, le percussioni a fare da linguaggio comune.
Lift Me Up è corollario di un patto tra Dahi e No ID, i synth del primo a coronare l’esperta strumentazione del secondo.
Evoluzione ulteriore dello stesso vocabolario è la magnificente marea di Clams Casino, producer ormai del tutto emerso (A$AP Rocky ringrazia e si ringrazia), qui al suo meglio in Summertime. Vince mostra di poter sfiorare il pop romantico senza scendere di un cm, galleggia senza problemi tra flow inediti e stereotipi frantumati.
Graziose voci femminili fungono da controparte azzeccata al buio, Kilo Kish in primis: l’anima creativa della musa di Orlando ricambia un passato favore (un featuring di Vince sul suo “K+” mixtape), e ritorna ridondante, fino a travestirsi da cotonato pendolo, eterea parte del beat. Altre comparse non nuove a collaborazioni sono Snoh Aalegra e Jhené Aiko, scelte con cura per completare spazi altrimenti monotoni.
Come se non bastasse, a dimostrare il rispetto universale ottenuto dall’MC arrivano Future (in forma, come spesso gli capita di recente, sulla trap-hit Senorita) e Daley (voce R&B britannica, ausilio in Birds & Bees). A mitigare o drammatizzare il clima sopraggiungono Desi Mo, Haneef Talib, James Fauntleroy.
Dal primo all’ultimo dei 59 minuti del disco, Vince strizza a massima tensione la sua corazza, componenti un irriducibile orgoglio afroamericano e losangeleno, un posto coatto da narratore interno del ghetto, e una strabordante dedizione alla verità.
Come se il suo XXL Freshman Freestyle continuasse senza sosta, emana un’attenzione alla lettura e al rispettivo grado di serietà di ogni pezzo degna di Too $hort, se non anche dei grandi MCs newyorkesi, ispirazioni intense e geograficamente opposte.
Un debutto diverso da tutto, distante da formule facili, conferma come Vince non si senta nemmeno lontanamente una celebrità: farà meglio ad abituarsi, siamo di fronte ad uno dei migliori album hip-hop dell’anno.
La sua maestra gli disse che erano schiavi, sua madre che erano re.
Il padre dentro e fuori dal carcere e Vince forzato a scoprire il cielo da solo.
Siamo una via di mezzo, ha pensato.