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È buffo: i giorni del Siren Festival a Vasto sono coincisi perfettamente con le mie vacanze estive. Per questo e altri motivi, ho deciso di mandare a carte quarantotto le mie intenzioni iniziali di descrivere in modo oggettivo ciò a cui ho assistito. Mi lascio andare come corpo steso e arso al sole dopo un bagno a mare – ah, lo sapevate?, se state un tempo relativamente lungo a mollo nel mare mosso, la sera quando chiudete gli occhi vi sentirete ancora in movimento, come le boe. Una sensazione non troppo dissimile dalle onde sonore, a ben pensarci.
O ancora, le onde che trovate a Punta Penna, spiaggia splendida della Riserva di Punta Aderci le cui immagini si intersecano idealmente con i ricordi di questa seconda meravigliosa edizione del Siren Festival. Una spiaggia alla quale chiedere permesso, accedendo attraverso un periglioso sentiero in discesa sottratto alla ricca vegetazione. Se non fosse per i bagnanti-puntini sulla sabbia, i trabocchi sarebbero le uniche tracce umane, con le loro assi in legno protese verso il mare a mo’ di braccia ossute di un Poseidone disidratato. Un’immagine che si sovrappone combaciando perfettamente con il primo concerto a cui assisto, IOSONOUNCANE. L’effetto prodotto è di un’intensità straordinaria: Die dal vivo urla e ribadisce una forza tale da riecheggiare quella natura selvaggia che fagocita l’uomo. Un disco di sangue e terra, come direbbe Pavese. E mare, mare, mare. Commovente, un momento musicale e personale altissimo.
Si diceva prima: chiedere permesso. Chi sicuramente non lo chiede, confermando così il suo proverbiale caratteraccio, è il buon Mark Kozelek / Sun Kil Moon. Shhhh, it’s gonna be beautiful, si rivolge al pubblico tra una canzone e l’altra, imponendo il silenzio. Quello che accade ha davvero del miracoloso: la trasformazione progressiva del burberissimo Kozelek in una bestia cara – e rara. Ci consegna un concerto in uno stato di grazia (basta citare i dieci minuti di Caroline su tutti) con tanto di ringraziamenti entusiastici e sorrisoni finali. Il giorno seguente avrei incontrato in spiaggia un rilassatissimo Neil Halstead degli Slowdive, che insieme a Steve Shelley (!) ha accompagnato Kozelek nell’ultima tranche di tour di Sun Kil Moon. Nientepopodimenoche.
Rilassatissimi lo sono pure i Verdena che suonano più ispirati che mai. Trovata una quadra per i suoni, i bergamaschi si dimostrano ancora una volta vere macchine da guerra, caterpillar di fuzz e delay. Esaltata, mi unisco ai canti brandendo in aria un saporitissimo arrosticino con tanto di movimento a ritmo. Miami Safari e 40 secondi di niente sono miele per le mie orecchie. Lo ammetto, sentir cantare “Settembre ci porterà via con sé” stona un po’ con questa notte di luglio. L’estate è ancora giovane e il Siren ha tante perle da proporre. Clark, ad esempio, con un set sorprendente e super 90one che ci godiamo per metà sull’erba degli splendidi giardini del Palazzo D’Avalos senza fargli torto, ne siamo sicuri. Un antipasto perfetto per Jon Hopkins che, per farsi perdonare il ritardo, capisce subito come tira l’aria e ci regala una sberla di set tiratissimo e secco con tanto di acclamatissima Open Eye Signal. Il suo approccio fisico alle macchine e ai campionatori è trascinante, come una danza schizzata e nevrotica.
Il giorno dopo è mare e vento con tanto di scottata. Il migliore latte solare per la pelle arrossata è Scott Matthew che mette in scena l’incanto grazie ad una voce che è balsamo e coltello, scavascavascava e ti porta via il cuore. La sua cover di Smile trasforma i giardini in un Eden: forse è magia, forse stregoneria. Siamo rapiti. Colapesce con full-band prosegue la festa, confermandoci la bontà delle composizioni di Egomostro ma ahimè meno delle sue abilità vocali.
La nostra serata finisce spiaggiati sul palco principale di Piazza del Popolo. I Pastels sono un gruppo deliziosamente fuori dal tempo senza cui non avremmo probabilmente i Belle and Sebastian: con 4 accordi (ma quelli giusti) e arrangiamenti scarnissimi (ogni tanto spuntano dei synth timidi e dei fiati) i sei di Glasgow ricevono sempre più applausi. I loro sguardi sorridenti e di intesa dicono tanto, così come il loro cercare, curiosi, altri sguardi nel pubblico, sguardi pronti a ricambiare sorrisi e cuori. Ed è qualcosa di caldo e confortante.
Ma arriviamo a lui. A me piace definirlo principino. Ha qualcosa di nobile, forse negli occhi, nei modi, nella voce. Il principe delle maree: le sue onde sonore colpiscono lo sterno. James Blake inizia il concerto con Radio Silence, brano nuovo che prende ispirazione da Hope She’ll Be Happier di Bill Withers, che Blake esegue pure dal vivo (introducendo proprio Radio Silence) a mo’ di dichiarazione d’intenti. La sua musica è come il mare: bassi subacquei e synth che sono schiuma delle onde, lacrime salate con la cover incredibile di A Case of You di Joni Mitchell, moti ondosi su Voyeur. In chiusura Measurements, un mantra potenzialmente infinito che lascia tutti in estasi.
Questo è esattamente lo spirito del Vasto Siren Festival. In poche parole: prendersi bene. Sarà lo spazio intimo che abbraccia pubblico e artisti, spingendo gli uni contro gli altri. Sarà l’aria del mare in estate e la vista mozzafiato da Piazza del Popolo. Saranno i profumi mescolati di erba e carne, i colori del tramonto, le persone affacciate ai balconi, incuriosite dalla musica e dall’afflusso di migliaia di anime nel loro paese. È un’atmosfera che noi italiani conosciamo bene perché ha sempre fatto parte del nostro lessico familiare ma che paradossalmente è difficile da esprimere a parole. È un qualcosa da vivere e provare in prima persona. È quella cosa lì. E quando c’è, si ha bisogno di altro? No, credo di no. L’amore, forse.
Forse.
foto di Kimberley Ross[/column]
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