[column size=”2/3″ center=”yes”]La scorsa settimana abbiamo pubblicato la nostra classifica dei 10 migliori dischi italiani del 2015. In redazione abbiamo litigato un pochino, come giusto che sia, e alla fine tra i dischi “elettronici” di un certo circuito hanno trovato spazio sia Godblesscomputers che Broke One. Il nuovo disco di Bienoise invece non era ancora ufficialmente uscito (per la White Forest Records), e quindi la classifica non poteva che restare immutata. Abbiamo però pensato che il nuovo lavoro di Alberto Ricca (il suo vero nome quando non fa musica, cioè mai) meritasse un piccolo elogio, una sorta di menzione d’onore, di quelle che fa Pitchfork alla fine di ogni classifica. La seguente è quindi una edizione molto particolare di DISCO RACCONTATO, molto più lunga e dettagliata del normale. Una sorta di lezione privata tra chi scrive e Bienoise. Uno di quei ricevimenti dei professori universitari dove vai quando non hai ben chiaro un argomento, oppure ti è piaciuto così tanto che hai voglia di risentirlo, da solo.
Sarebbe poi giusto dirvi, forse, che la mia relazione con Bienoise è di un tipo che si avvicina molto al mecenatismo: spesso scambio con lui consigli (il più delle volte unidirezionali), ma credo che per qualche assurdo motivo anche a lui importi la mia opinione. Non per questo siamo sempre d’accordo, non per questo non mi è capitato di dissentire; ma dato il carattere molto particolare, quasi intimo, di quello che leggerete, mi pareva corretto specificarlo.
– Francesco Abazia
Cos’è Meanwhile, Tomorrow, quando nasce e soprattutto – dato che, da quanto letto, tieni molto al titolo – perché si chiama cosi?
Meanwhile, Tomorrow (importante la virgola, perché senza è il brano) è un disco che è nato col passare del tempo, subendo molte trasformazioni ed infinite modifiche. Nessuno dei brani è nato per essere inserito in “un album”, tutti nascono dal desiderio di esplorare una sonorità, un campione, una storia precisa – quindi non c’è un vero legame tra di essi, se non dovuto al fatto che inevitabilmente dietro a tutto ci sono sempre io. Molti pezzi sono anche piuttosto vecchi (Redundance è del 2011, Dà Vita del 2012) e ho aspettato così tanto a pubblicarli perché sono brani ai quali ho dedicato davvero molto lavoro, e desideravo la situazione ed il momento giusti. Il vantaggio è che ho potuto suonarli su mille impianti, capirne le debolezze ed eventualmente correggere ciò che non andava. Il titolo riflette anche questo. Volevo che trasparissero diversi messaggi: immagina la vignetta di un fumetto che dice “nel frattempo, domani”, o la sigla di un episodio di un vecchio cartone futuribile che dice “nel frattempo…domani!”. Sono due estetiche molto importanti per me, e parlano del livello narrativo che trovo fondamentale nella musica. Poi c’è il discorso della pazienza: impiegare tre, quattro anni a chiudere un disco non è comune ed è anche un po’ sciocco, e va decisamente contro una ricerca di gratificazione istantanea che a volte è percepibile nella cultura contemporanea. E nel frattempo, appunto, diventava domani e passavano i giorni e io non pubblicavo niente.
Mi hai anticipato: com’è avere tutte queste cose pronte e aspettare, aspettare… Peraltro una cosa in totale controtendenza con il 2.0 della musica digitale.
Terribile, ed infatti è una grande liberazione non avere praticamente più nulla nel cassetto (anche se ho già qualcosina poi). Sia questo album che Small Hopes of Common People, che ho pubblicato a maggio per Concrete, sono rimasti in lavorazione per tantissimo (Small Hopes risale addirittura al 2009 nelle prime bozze) ed ho voglia di fare cose distantissime da queste, ma prima dovevo liberarmene eheh! Sono comunque tutti lavori che mi rappresentano, bada bene, non li considero “cose vecchi” ma non amo ripetermi e voglio esplorare cose molto diverse ora.
Questo però possiamo definirlo una sorta di “mosca bianca”? Nonostante i tuoi lavori siano sempre stati molti diversi gli uni dagli altri, qui mi pare siamo difronte a qualcosa di diverso, e sì, stupefacente.
Forse è un disco più altruistico che autistico, rispetto agli altri miei, e quindi fa risuonare meglio le corde del pubblico è certamente più legato alle mie riflessioni sul clubbing e su cosa mi piace ascoltare dal vivo.
La prima frase è magnifica.
Eheh, ci ho pensato un giorno parlando con Andrea di White Forest a questa dicotomia in ciò che faccio. In tutto ciò le prossime cose temo saranno pesantemente autistiche, ma vediamo.
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Voglio stravolgere un po’ la struttura di Disco Raccontato (da ora in poi DR) e non partire dal primo brano ma dal tuo preferita.
Mi stai chiedendo qual è il preferito tra i miei figli?
Praticamente sì.
Quello che ritengo più compiuto in senso assoluto è comunque il primo, Focus Numbers (che non è lì per caso); ma quello che, coi suoi limiti, credo sia il migliore è Dà Vita.
Ed è anche uno dei titoli più belli mai letti!
Perché è il mio preferito: perché con tutti i sacrifici che ho fatto per farlo studiare e farlo diventare ciò che è, ci mancherebbe altro. Eheh, e c’è una bella storia dietro il titolo! Un giorno Noumeno, produttore straordinario che si vede di tanto in tanto in Italia a Macao e col quale siamo amici da anni, mi scrisse che aveva sognato che un mio brano era in vendita su Bleep. Il titolo del brano era ovviamente Dà Vita, e non ho esitato ad usarlo il prima possibile. Quel che non potevo sapere all’epoca è che uno dei brani sarebbe VERAMENTE andato in vendita su Bleep (All the Future I can Endure, che era presente nella compilation di The Italian New Wave dell’anno scorso in una versione differente) ma a quel punto era tardi per cambiare il titolo alla Dà Vita originale. Che, per inciso, nella sua prima versione del 5 settembre 2012 si chiamava Tapeworm, perchè è basata all’80% su campionamenti di vecchi film e documentari su VHS.
Che figata.
Sì, sono suoni bellissimi e trasmettono benissimo la mia estetica, che non ha mai smesso segretamente di aspirare ai Boards of Canada. Io sono legatissimo a loro per mille motivi, e credo ci siano dei punti di contatto dovuti anche al fatto di vivere distanti dai centri culturali. Comunque, l’altro motivo per cui la amo particolarmente è che è il brano più pienamente narrativo del disco: il momento dell’esplosione centrale vuole essere davvero vertiginoso, e non sono ancora certo di averne bilanciato alla perfezione le due anime. Come tracce di riferimento alternavo Odessa di Caribou e Nolan di Ben Frost, per intenderci. Comunque per me questi momenti narrativi sono importantissimi, perché mi riportano all’emozione dell’introduzione di Shine on you Crazy Diamond ascoltata in auto da bambino, e rendono il brano memorabile in quanto non solo un piccolo mondo con regole a sè, ma anche una vera e propria storia. Che non vuol dire che in ogni pezzo di debbano essere i fuochi d’artificio, mi innamoro anche delle piccole cose. Su Dà Vita direi che non ti posso dire altro, perché non credo di poter dire da dove arrivano i campioni eheh.
Introdurrei invece un attimo All the future… e lo farei chiedendoti una cosa: la durata delle tracce è, mediamente, molto lunga. Credo sia una precisa esigenza che nasce appunto dalla voglia di raccontare qualcosa, ma hai mai pensato potesse trasformarsi in un ostacolo?
Parto dalla domanda critica: no, non lo percepisco come un ostacolo. Sono un grande appassionato di progressive rock, e sin dal principio sono sempre stato affascinato da queste tracce lunghissime con moltissime cose dentro o pochissime, quando è Space Truckin’ suonata in giappone dai Deep Purple anche in elettronica, alcune delle mie cose preferite (Disintegration Loops, certi brani degli Oval) sono lunghissimi, e trovo che non avrebbero senso in una dimensione ridotta. Se dò per scontato di rivolgermi ad un pubblico che mi somiglia, no, non è un ostacolo, ed anzi sarebbe una perversione dell’intento originario costringerle in tempi più brevi specie nel caso di brani che comunque vogliono essere potentemente ipnotici e sono pensati per essere ascoltati all’ora giusta e nelle condizioni giuste. Come nel caso di All the Future ed in ogni caso, esiste il tasto skip. All the Future I Can Endure è un brano strano, che nasce e viene quasi completato senza la parte di sintetizzatore che ne costituisce in qualche modo il tema. Poi, ragionando su cosa pensavo le mancasse, ho deciso che sarebbe stato interessante aggiungere un livello di profondità. Cercando nella mia libreria, ho trovato quella che si sente, che conteneva questi due accordi – che poi ho ricostruito con un sintetizzatore, ma che si possono comunque sentire anche nella forma originale. È una registrazione ambientale di un club prima di un concerto, col vociare e la musica diffusa. È un brano molto lento, che si richiama a certe estetiche che mi piacciono molto (non so se definirle post rave o post techno, in ogni caso roba non proprio da festa del liceo) mi piace moltissimo anche la parte di clarinetto basso, del quale ho cercato di far risaltare la ritmica delle chiavi che diventa in qualche modo “rullante” del brano anche quando è nascosto. È comunque una versione completamente rivista rispetto a quella uscita su Bleep, e trasmette anche un’atmosfera molto diversa, meno lo-fi e più avvolgente.
Parliamo del mio brano preferito?
Volentieri, sono proprio curioso!
La quasi – ad eccezione della virgola – title track, Meanwhile Tomorrow. Anzi, ne parlerei come di uno dei miei brani preferiti dell’anno se non fossimo al 20 dicembre. Posso però dire una cosa blasfema, una di quelle per cui saresti autorizzato a non parlarmi più? Ho pensato a Luciano ascoltandola, che quando ero più addentro alla 4/4 era, o credevo che fosse, il mio preferito.
Ma ci mancherebbe guarda! Capisco che io proietti un’immagine di quello noioso, del tipo minchia il free jazz, minchia 40 minuti di nastri che si rovinano, ma roba tipo Jamiroquai o Daft Punk non mi fa mai storcere il naso. Mi son piaciuti pure i Jungle perché fanculo sì divertiamoci. Non sopporto l’housettina pettinata (non stupirà nessuno), ma un dj set di Delfonic o Tony Humphries mi fa sempre sorridere.
Dichiarazione superata indenne, bene. Da fanatico, quale sono, delle voci, mi piacerebbe partire da lì.
Volentieri, anche perché è giusto che io ringrazi pubblicamente Francesca Martinelli, mia buona amica e cantante straordinaria, che si è prestata alla cosa. Le voci sono sostanzialmente tutte originali come cantate da lei il che è stato molto criticato da alcuni del mio ristretto circolino di opinionisti. Ma erano esattamente come le avevo in testa io, volevo un brano con un testo cantabile sia perché è bello, sia perché mi andava di raccontare una storiella – soffrendo la difficoltà nell’infondere significato in una strumentale, pur provandoci con forza coi titoli. Visto che mi chiedi delle voci: per me ovviamente la voce è uno strumento come un altro, ma che a differenza degli altri ha un forte potere polarizzante. Cerco sempre di non abusarne quindi, così come in un film è sbagliato abusare dei dialoghi per spiegare le cose quando ci sono, devono essere determinanti perché inevitabilmente costituiranno il tema del brano per l’ascoltatore.
Che bello quando fai i parallelismi musica film!
Beh io sono un cinefilo piuttosto nerd e sovranalitico, se vuoi perdere tempo io sono disponibile sempre.
Me lo ricordo, di tempo ne abbiamo perso parecchio altre volte. Però ti ho interrotto su Meanwhile Tomorrow…
Si, dicevo… Che poi sia effettivamente un pezzo house o meno, quantomeno l’orizzonte di partenza era questo. La direzione è ovviamente stata “bene, facciamo un pezzo house” anche qua, ci sono moltissimi campionamenti da vecchi film (il pianoforte, le voci maschili in sottofondo), e moltissime ore spese a renderli usabili per questo brano – il che mi sta rendendo mgliore nella scelta dei campioni di partenza, perchè non posso sempre perdere gli anni a fare sound design. È un pezzo col quale ho un rapporto difficile, perché è vicino a molte cose che mi piace ascoltare ma lontano da quello che voglio dire, specie dal vivo. Però so anche che è piaciuto a moltissime persone (e molti mi chiedevano da un po’ “quando pubblichi il pezzo con la tizia”), quindi sono contento di averlo realizzato – e qua, musica seriamente altruistica per una volta assieme a Dà Vita e Focus Numbers. È comunque il brano più complesso a livello produttivo, ci sono davvero tantissimi livelli di ri-campionamento, digitale ed analogico e questo è decisamente il frutto più concreto dell’esperienza live: ha subito diversi remix dopo averlo testato in diversi club, e la struttura è abbastanza “classica” (anche se far aspettare la voce per tre minuti su un brano da sei è una scelta che non pretendo sia condivisa).
Io l’utilizzo della voce l’ho vissuto come catarsi finale, una illuminazione.
Mi fa piacere che il messaggio arrivi! Tempo fa leggevo un’intervista a Kode9 in cui diceva qualcosa di simile a «in un dj set, la maggior parte del tempo dovrebbe essere destinata a costruire la tensione e l’atmosfera, con pochi rilasci molto ben scelti». Sono estremamente d’accordo, pur non essendo un dj (lo ribadisco, e ribadisco che non è snobismo ma realismo) ci sono svolte narrative che vanno preparate ed è vero anche nell’economica più breve di un brano da sei minuti. Comunque non sono solo, vedi Made to Stray dei Mount Kimbie, un singolo di una band simile che ha la voce che entra un minuto prima della fine e te la fa vivere, come dici molto gentilmente tu, come una rivelazione: è il sole che finalmente sorge su noi che stiamo ballando.
Un sole che porta alla scoperta di un tesoro (Treasure). Sorvolando sul mio hook da due soldi: di che tesoro parli?
Spero che la spiegazione non sia deludente perché è la solita nerdata da bimbo solo. Found a Treasure è un brano in larga parte improvvisato. Drum machine, sintetizzatore, spippoli vari praticamente la sua forma finale è quella nella quale l’ho suonato, senza praticamente nessun editing. Bene, come spesso capita con le migliaia di ore di improvvisazioni che ho da parte, me ne ero completamente dimenticato finché un giorno non è saltato fuori facendo pulizia e mi sono accorto di quanto bene funzionasse, pur essendo così distante da quanto avrei consciamente progettato per un brano normale. È questo il tesoro, trovare piccole cose dimenticate, che però in quel momento sono tessere determinanti di un progetto che stai portando a termine. Può essere un vecchio vhs sul cyberpunk, un mangianastri da modificare, un documentario su Kowloon nascosto nei meandri di Youtube, o qualsiasi oggetto o scampolo di cultura ci ecciti.
Non è per niente deludente, l’amore e l’amicizia sono valori che hanno ampiamente rotto le palle. O almeno, la loro esaltazione ha rotto le palle, spazio al feticismo (quello sano).
Ma sì, ma di brutto.
Su Stanzino-Studio ho tutta una teoria, vuoi sentirla?
Certo, mi interessa molto sapere come gli altri vivono la mia musica.
Allora: qualcuno (che ha ascoltato un po’ di Burial) entra in una di quelle meravigliose villette di Croydon (mia zia abita li, quindi conosco solo quello della periferia londinese). Il cielo è terso, e lui apre una porta che – come nella casa di Fargo – conduce in questo stanzino tetro, quasi spaventoso. E va avanti a comporre musica malata, pitchando tutto quello che gli capita a tiro. Fino a che non si ricorda del jazz e la sua anima trova pace.
C’è tutto un film quindi, un romanzo di crescita!
Oppure una psicosi.
Ahaha. Allora, diciamo che a fare i Burial ci han giocato un po’ tutti negli ultimi anni.
Credi che abbia cambiato davvero il modo in cui ascoltiamo la musica?
A molti livelli. Col tempo mi sono reso conto che ha incarnato un’estetica ed un messaggio che per me sono importanti. La questione narrativa, di creazione di una atmosfera che rimanda immediatamente ad una storia, è potentissima in quel che fa. L’uso della produzione a scopo espressivo è un messaggio importantissimo che in pochi capiscono (infatti chi tenta di fare Burial che suona bene fallisce, perché è come fare Black Metal e registrare tutto pulitino) e la libertà di forma che ha espresso più recentemente, al di là del valore musicale del brano, è qualcosa che sento vicinissimo. Percepisci davvero il “questo non è un ‘brano’, questa è una trasmissione di una radio pirata, registrata su una cassettina scambiata nelle aule di una scuola”.
Sento che sta per arrivare un enorme ma…
Non c’è un ma c’è un: la forza dell’elettronica di portare la musica nel nuovo millennio passa anche da questo. Senza neanche entrare nel merito dell’esclusione dell’identità del produttore dal discorso ecc quindi sì, ha cambiato il modo di vivere, ascoltare, e produrre musica in noi e non tutte le vocine pitchate sono Burial, infatti spero non venga troppo legata a lui perché sarebbe un po’ banale, anche se mi rendo conto che la voce più il rimshot siano determinanti…
E quel sax invece, da dove salta fuori?
… e solo lui ha avuto il coraggio di mettere un sassofono così brutto in un brano, se non ricordo male.
Ehehe appunto. Boh, vale un po’ il discorso di prima della voce come elemento polarizzante.
È una roba celestiale, e non lo dico in termini di lode è proprio il primo aggettivo che mi viene in mente, anche in riferimento alla storiella di prima.
Ho ritenuto che un controcanto con un sassofono (che ha appena meno potere diciamo) potesse funzionare ovviamente in super HD sparato in faccia. Pensa che si tratta di un temino suonato a caso prima di delle prove ma va beh, le fonti non sono importanti. Mi sono chiesto a lungo se tenerlo o meno, se non fosse ‘troppo’.
Sono quanti, manco 10 secondi, che stravolgono, per quanto mi riguarda, tutta l’idea che m’ero fatto del pezzo.
Decisamente meno di 10 secondi; l’ho usato con estrema parsimonia proprio perché doveva essere sconvolgente come la voce in Small Hopes, che appare per due secondi e fa il brano, ed ovviamente moltissime persone mi hanno detto “FALLA SENTIRE DI PIÙ”.
Che succede in Redundance?
Un sacco di roba! E’ un brano molto vecchio (penso addirittura coevo della mia Flesh Haiku, pensa te), e si sente si sente perché a 135 bpm, quindi molto veloce per il dancefloor. Come sai arrivo dalla breakcore e dalle cose velocissime (e ci torno, di tanto in tanto, specie dal vivo) ed ero in una zona di passaggio rispetto alle cose molto lente che tendo a fare oggi (mi piacciono gli estremi). È anche un tentativo di rendere “fico” il 6/8, un metro generalmente relegato a tutt’altro genere di cose qua forse la voce non è usata in modo particolarmente intelligente, ma non mi da fastidio. Nel risultato finale c’è anche un po’ di sound design che mi piace ancora molto, persino del modern talking che non mi sono mai più azzardato ad usare da nessuna parte. In ogni caso pur essendo un brano vecchio, non l’ho rimaneggiato per l’album. Andava bene così. Ti piace?
Molto, da un gran strappo di ritmo.
Sì, ho riflettuto molto sull’ordine da dare alle tracce. Secondo me found a treasure – stanzino – redundance costruiscono un finale abbastanza coinvolgente ed in crescendo. Suppongo adesso Focus Numbers, ma dimmi tu.
Giusto, ce la stavamo perdendo.
Sì, qua la voce è determinante, un altro “tesoro ritrovato” tra le pieghe delle cose che registro. Il tema è tratto da una cover di un brano famosissimo, che non so se dire perché mi piace tormentare la gente, che sono convinto possa arrivarci canticchiandosela. È in prima posizione perché trovo che sia il brano più compiutamente “elettronico”, in linea con quanto più io sia in grado di fare con le aspettative di un pubblico. La produzione è stata più rapida (che non vuol dire rapida), ma sono davvero felicissimo di tutto ciò che c’è dentro più degli altri bran; ci sono moltissimi livelli di suono, ricampionamenti, ed un mix analogico che non cito certo per tirarmela, perché non si parla di banchi da migliaia di euro però lo spazio che si è creato è merito anche di questo, e non sempre funziona. Inizialmente il progetto era farla uscire in un singolo con Meanwhile, poi ho cambiato idea. Ma credo sia interessante che queste due siano nate vicine e connesse fin da subito, rispetto alle altre. Il titolo si riferisce ad una delle strategie per determinare se si sta sognando o meno: cercare di mettere a fuoco dei numeri (che generalmente in un sogno è impossibile) la vita di questo brano non finisce sul disco, sto preparando qualcosa di basato su di lui.
Che bello! Però voglio sapere cosa…
Diciamo un supporto visivo, ma non esattamente un videoclip non so se te lo potevo dire ma oramai ahaha.
Chiudiamo con Yelena, la più bienoisiana, per come ti conosco io almeno.
È un’osservazione molto interessante. Forse sì, purtroppo per le vendite dei miei dischi, forse il disco sarebbe tutto così se lo concepissi oggi. È una chiusura cui inizialmente non volevo dare titolo, e lasciarla come ghost track, ma aiuta a capire un po’ di cose sull’album. Yelena Rossini è una delle protagoniste di Transmetropolitan, un fumetto cyberpunk dal potere estetico e comunicativo enormi ed era il titolo originale di Meanwhile Tomorrow. A questo punto per capire ti invito a rallentare Meanwhile di un 30%. Devi sapere che io sono uno che compra i 45 giri per ascoltarli a 33: il piacere di Bette Davis Eyes o, per tornare su Burial, Street Halo, lentissimi non ha paragoni ed in effetti, forse, pur essendo un giochino divertente e non proprio un brano, è la cosa più legata ai discorsi che vorrei portare avanti in futuro. Condizioni alternative di ascolto, la ripetizione, produzione sempre più al servizio della storia da raccontare; ma cercherò di continuare ad essere anche altruistico, è importante riuscire a comunicare senza per questo pervertire il proprio modo di essere.
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