Scendo dalla macchina a Chinatown, zio Blade mi sostituisce al volante e porta la piccola da suo papà. Con passo dapprima incerto, lascio alle spalle due anni di concerti e serate rigorosamente con bimba al seguito e mi avvio verso due file trepidanti ai lati dell’ingresso del Nextdoor. Il DJ set di Bonobo è sold out da giorni e ho deciso di onorare il privilegio di un nome in lista con indivisa attenzione ad ogni nota, ogni battito, ballando dall’inizio alla fine. Artisti del calibro di Bonobo non si vedono spesso nel mezzo dell’oceano Pacifico. L’immensa rete di tragitti in agili canoe si è impigliata nelle ali di grossi aerei impacciati, ed è nata la metropoli più isolata del mondo. Chiunque nell’isola ha un minimo d’interesse nell’elettronica è qui stasera. Età e abbigliamento sono eterogenei, nei locali hip di Honolulu più che altrove sembra che ogni persona viva in un suo personale film, ma l’attesa è ugualmente tangibile ovunque nella sala.
DJ Ramyt elargisce house di classe ma l’atmosfera rimane un po’ da festa in casa; il generale molleggiamento su piedi di piombo è interrotto brevemente solo da gruppetti di conoscenti, entusiasti di ritrovarsi all’evento della stagione.
Noto un’ombra amorfa sul maxi schermo dei visual, é proiettata da due enormi reti appese al soffitto, stracolme di palloncini. Effetto scontato, mi dico, infastidita da alti uomini molto impegnati a colpire i palloni giganti che già rimbalzano sopra le teste–incuranti di colpire a tempo, o di lasciar proseguire la traiettoria verso braccia più corte. Il locale si riempie e alla console arriva DJ Timo, celebrità locale, l’atmosfera si riscalda un po’. Il suo djset si compone di un crescendo di rimandi disco, così ben inviluppati in sonorità contemporanee da coinvolgere senza alcuna vergogna entrambi gli argini dei trent’anni.
Finalmente Bonobo sale sul trespolo e si aggancia all’ultimo pezzo di Timo per aprire con sonorità epiche a Prelude e Kiara da “Black Sand”. Per quanto ovvia, l’introduzione ha effetto e il pubblico esulta, per l’ultima volta, come se si attendesse un concerto. Divertita dall’atmosfera fra il provinciale e l’avanguardia, apprezzo che ogni volta che ci si scontra è un’occasione per amichevoli strizzate di spalla e scambi d’intesa, per fortuna mai scaduti in bassezze indesiderate.
Bonobo gioca con suoni tradizionali, come un lungo interludio di sola darbuka e un pezzo incentrato su hand-clapping e giro di guembri dall’eco tuareg. Alterna a sonorità quasi dubstep a dei suoni più martellanti e i ritorni occasionali alle sonorità malinconiche, eteree e complesse cui i suoi dischi hanno abituato le nostre orecchie.
Lo sbocciare della vera festa avviene lentamente, rallentata anche dall’impianto che salta ben due volte. Fortunatamente nessuno serba rancore e la festa riparte e finalmente risponde solo al groove e al desiderio di ballare. I centimetri di altezza o il numero di amicizie per metro quadro non contano più. E allora succede, quando ogni presente si era dimenticato di loro, scroscia la silenziosa cascata di palloncini, rimbalzano fra le braccia in aria con semplice gioia, nessuno si impegna a prenderli, fanno parte della danza, e quando Bonobo passa a un ritmo più lento e sincopato scoppiano in contrappunto con i salti di cento piedi alati.
Onestamente i passaggi di Bonobo non sono sempre perfetti e la console è standard, ma siamo qui per ballare in uno spazio di suoni creato con gusto delizioso e raro. Quando si accendono le luci nessuno rallenta, ci si guarda gli uni le altre nella nuova luce con sorrisi soddisfatti e si continua a saltare anche quando la lunga coda dell’ultimo un pezzo non incontra mai il pezzo successivo, e poi scoppia.
Foto di David Fein
Testo di Caterina Desiato
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