Il grande pubblico italiano ha conosciuto Ben Watt grazie ai suoi successi in coppia con la moglie Tracey Thorn, molte delle canzoni da loro composte e cantate come Everything But The Girl hanno segnato un’epoca indimenticabile del pop di qualità. Una cerchia più ristretta di appassionati lo ricorda anche per il suo periodo a capo della label Buzzin’ Fly e come remixer con lo pseudonimo di Lazy Dog. A questo si aggiungono due libri pubblicati con gran successo nel Regno Unito – “Patient”, resoconto lucido e sentito della sua lotta contro la grave malattia autoimmune che lo ha colpito agli inizi degli anni novanta, e “Romany and Tom”, tenero ed allo stesso tempo disincantato ritratto dei propri genitori- ed un programma radiofonico di prestigio. Con l’uscita nel 2014 del suo secondo album solista “Hendra”, il primo risale agli inizi degli anni ottanta e precede la fondazione di EBTG, Ben è tornato al suo amore più grande, la chitarra, tornando a privilegiare un sound elettro-acustico ed una scrittura fortemente intima ed autobiografica. In questa sua nuova avventura musicale lo accompagna fin dall’inizio il chitarrista e produttore Bernard Butler, dando vita ad un connubio che raggiunge un apice creativo in questo nuovo album intitolato “Fever Dream”, in uscita proprio in questi giorni. Una raccolta di dieci canzoni ariose e solari che entrano sotto la pelle per arrivare sottilmente al cuore. La release ci ha dato l’occasione di intervistarlo durante una lunga Skype session – direttamente dal suo studio londinese, pieno zeppo di strumenti musical i- e nella quale si è rivelato persona di grande profondità, onestà ed acume intellettuale, nonché gran senso dell’umorismo. Questo è il resoconto in una delle interviste più belle pubblicate finora dalla vostra webzine preferita. Dategli una letta:
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Quando hai iniziato la tua carriera agli inizi degli anni ottanta, in Gran Bretagna, si muoveva una generazione di chitarristi e songwriters come te, Roddy Frame degli Atzec Camera, Edvyn Collins per certi versi, sicuramente Johnny Marr degli Smiths ed altri, che secondo me avevano una comune attitudine molto fresca verso la musica. All’apparenza una specie di scena alternativa alla scoperta di jazz, bossa nova ma anche soul e disco ad esempio, direttamente in contrasto con i più triti stereotipi della musica rock. Che ne pensi?
Si deve sempre tenere a mente che quello che il punk ha fatto è ribellarsi contro quello che era stato fatto prima; in particolare ha rifiutato gli anni settanta, gli eccessi di quell’era, il rock progressivo, l’indulgenza. Una volta che questa spinta si è esaurita è emersa una scena di musicisti come me che si è messa alla ricerca di idee andando al di là degli anni settanta o sessanta. Sono cresciuto con un musicista jazz come padre, con fratelli e sorelle più grandi che avevano gusti musicali molto variegati ed è così che ho scoperto la musica di Joao Gilberto e Chet Baker, ed i primi anni ottanta sembravano essere molto ricettivi verso questo tipo di influenze musicali. C’era un termine che ai tempi veniva usato, specialmente dal New Musical Express, ed era “anti-rockistico”. Sembrava un atteggiamento troppo macho e stupido quello di ritirarsi nei soliti luoghi comuni del rock. Se si chiede a Johnny Marr chi lo ha influenzato come chitarrista, la sua risposta immediata sarà “Motown!”. Quello che ha cercato di fare è stato trasportare i riff della Motown sulla sua chitarra, un sacco di groove dei primi Smiths sono presi pari pari dalle Supremes. Per cui penso che tu abbia ragione, e poi in quegli anni c’era molto spazio di manovra nella musica pop, in ogni genere. Probabilmente è stato con l’avvento di Primal Sceam e Oasis, e la riabilitazione di Rolling Stones e Beatles che hanno portato con sé, che il pop in termini di inventiva ha cominciato lentamente a rallentare. Penso che da quel punto in poi si è sempre più guardato al passato, creando un’infinità di piccole nicchie. Non si avverte un senso di progressione continua da allora, è diventato come un fiume che è arrivato alla fine del suo percorso diramandosi in una specie di delta formato da tante differenti idee.
Voglio provare a farti ridere ora. A proposito di quello che hai detto, mi ricordo di un’intervista in cui proprio Johnny Marr raccontava di come in quegli anni tu lo criticasti per l’uso della Gibson Les Paul al posto della tradizionale chitarra semi-acustica, quella che era un po’ lo strumento d’ordinanza, la chitarra simbolo di quegli anni. È vera questa cosa?
Certamente. Quando si è giovani si hanno delle convinzioni molto forti, si è quasi stalinisti nel proprio credo, e sicuramente allora vedevo quel tipo di chitarra come il nemico.
Ma più tardi nella tua carriera hai tu stesso suonato le Gibson Les Paul!
Sicuro, avevo diciannove anni a quei tempi! (ride) Cosa ti puoi aspettare? È un po’ un dovere avere delle opinioni a quell’età! (altre risate)
Come descriveresti il tuo percorso artistico? Io ci vedo un certa logica, una specie di traiettoria circolare che si chiude con l’uscita del tuo album “Hendra”:
Evito di descriverlo. Lo so che non è un percorso usuale, non è tipico. Reagisco semplicemente a quello che mi sta di fronte ad a ciò che il mio sentire mi indica come la cosa giusta da fare. Sono molto istintivo, molto immerso nella cosa in cui di volta in volta sono coinvolto. Coltivo i miei interessi nei campi che più mi interessano nell’ordine in cui più mi interessano. Questo può confondere chi si accosta solo ora al mio lavoro, ma io vado avanti per la mia strada. E se mi fa stare bene, allora significa che è una cosa buona.
Eppure l’impressione che ho avuto è che tu sia arrivato alla fine di ogni fase della tua carriera quasi volontariamente, in maniera cosciente, seguendo una specie di piano. Venti anni di Everything But the Girl, la tua esperienza di remixer come Lazy Dog, i dieci anni seguenti a capo della label Buzzin’ Fly fino ad arrivare alla tua nuova fase come artista solista. Che ne pensi?
In realtà non so mai quale sarà la prossima cosa e mi fermo sempre quando mi sembra che il momento sia quello giusto, quando ho l’impressione di aver detto tutto quello che avevo da dire e sento il bisogno di cambiare.
C’è gente che mi ha offerto un sacco di soldi per continuare a fare il dj, potrei continuare a girare il mondo facendolo e continuo a ricevere proposte per tornare alla house, ma ho raggiunto un punto in cui ho avuto la sensazione di non riuscire più ad esprimermi in maniera onesta facendolo, e questo mi crea dei sensi di colpa. Non mi piace fingere. Ho passato dieci anni producendo musica elettronica, remixando, occupandomi di A&R ed ho raggiunto un punto in cui ho dovuto fermarmi, senza sapere quale sarebbe stata la prossima cosa della quale mi sarei occupato da quel momento in poi. Sapevo che doveva avere a che fare con la scrittura e le canzoni, era una sensazione di pancia. La prima cosa che ho fatto è stata scrivere il libro sui miei genitori, “Romany and Tom”, e inaspettatamente appena arrivato a chiuderne la scrittura, mia sorella è morta. Quello è stato un momento terribile per tutta la famiglia. Sono arrivato al Natale del 2012 pensando “Ma che cazzo sta succedendo?” ritrovandomi nel Gennaio del 2013 con il desiderio di comporre. Ho preso in mano una chitarra ed ho cominciato a scrivere canzoni, senza averlo pianificato, in maniera istintiva. Ed appena ho iniziato a farlo mi sono sentito veramente bene. Ho iniziato a sperimentare con nuove accordature di chitarra, e questo è il motivo per cui ho tutte queste chitarre ora (si gira mostrando le chitarre appese alla parete). Sono di grande ispirazione al momento. È questa in sintesi l’origine della musica che sto producendo ora. Mi ha dato una sensazione di freschezza, di novità, ed io ho bisogno di trovare sempre qualcosa di interessante, che mi ispiri e che mi faccia sentire fedele a me stesso nel mio essere creativo. Non ho voglia di suonare le hit, non voglio cadere nella nostalgia. Voglio continuare ad essere produttivo. E se questo significa farlo per poche centinaia di persone anziché per migliaia, va bene così. Ma è esattamente quello che mi sento di fare.
Nella canzone “Young Man’s Game” hai descritto un po´la tua esperienza di dj. Inoltre ricordo una tua intervista nella quale motivavi il tuo ritiro da quella scena con l’impossibilità di avere una vita familiare normale seguendo certi ritmi ed impegni:
Tutti i dj lo possono confermare: essere un dj è antisociale. Dormire di giorno e lavorare di notte ti impedisce di vedere la tua famiglia. La canzone “Young Man’s Game” racconta cosa significa invecchiare facendo il lavoro del dj, di cosa si prova nell’accorgersi che mentre chi ti sta di fronte sul dancefloor sembra rimanere eternamente della stessa età, tu che stai dall’altra parte della consolle invece invecchi inevitabilmente. È così che mi sono accorto che il rapporto con il pubblico stava cambiando. Ho provato fatica a stare i piedi tutta la notte, mi sono accorto di non aver voglia di salire sul prossimo volo, di affrontare il prossimo gig. Mi sono accorto di non avere sempre voglia di ascoltare nuovi dischi, e questo mi ha fatto capire che non era il modo giusto di fare ciò che stavo facendo. Non ho voluto prendere in giro il pubblico presentandomi alla consolle così, tanto per farlo. Mi sono ritrovato a pensare “Lascia il posto ai giovani!”. Ma a prescindere da questo, amerò sempre molta musica house e techno.
Per tornare a quanto hai accennato prima: ripercorrendo la tua carriera mi sono trovato a chiedermi dove hai trovato la forza di raccontare la tua storia personale e della grave malattia che ti colpito anni fa nel libro “Patient”, e successivamente quella dei tuoi genitori, nel libro “Romany and Tom” da te citato prima. Non sei sicuramente il tipo di artista che si mette in mostra, alla Iggy Pop, spogliandosi e gettandosi dal palco, eppure trovo che tu abbia dimostrato grande coraggio scrivendo di eventi così personali ed anche traumatici in maniera così sincera:
Non mi curo di me stesso. Quello che mi interessa piuttosto è il trovare terreno comune tra le persone. Se mi ritrovo a pensare a qualcosa ed a provare per questo un sentimento molto forte, mi dico “Anche altre persone devono provare le stesse cose che provo io!”. E se provo a descrivere tutto questo in maniera evocativa, cercando di catturare la perfezione di questo momento, questo andrà a toccare altre persone e si instaurerà un qualche tipo di comunicazione, e questo in fondo è il senso di tutto. Questa è una spiegazione, d’altra parte si potrebbe anche affermare che sia io che Iggy Pop siamo due grandissimi esibizionisti, ma di due tipi completamente diversi.
Si notano dei temi ricorrenti nei tuoi testi: la capacità di recupero, la speranza in un futuro migliore. Lo si nota in canzoni come “Spring” o “Hendra”, nella quale tra l’altro canti “This rooms are cold but heavenly, and the sun is shining, you know what they say about silver, and lining”:
C’è un raggio di sole che non se ne va mai. La speranza può svanire, ma quando sembra che tutto sia perduto può essere ritrovata. Anche quando sembra che tutto vada male non si deve mai smettere di credere che le cose possano cambiare in meglio, perché alla fine è quello che effettivamente succede. Arriva sempre uno sprazzo di luce attraverso le nuvole. Samuel Beckett ha scritto “Non possiamo andare avanti, dobbiamo andare avanti!”. È una conclusione di tipo esistenziale. Cosa c’è davanti a noi se non altra vita da vivere? Sono una persona fondamentalmente negativa, malinconica, ma vivo con Tracey e lei è molto brava a trovare nella vita tutto ciò che c’è di buono. Mi fa stare bene, e questo cerco di farlo entrare anche nelle mie canzoni, trovo che sia giusto farlo. Altrimenti è solo autocommiserazione.
Questa la lasciamo a Morrissey!
(altre risate)
Arrivando ora alla tua collaborazione con Bernard Butler, iniziata con l’album “Hendra”, mi sembra che condividiate delle esperienze musicali simili all’interno di una certa tradizione britannica tra folk e rock. Si ha l’impressione che vi completiate bene a vicenda, che siate sulla stessa lunghezza d’onda:
Suonando assieme fin dall’inizio abbiamo cercato di non fare riferimento per nome a musicisti che potessero costituire un qualche tipo di influenza, facendo riferimento piuttosto alle emozioni trasmesse direttamente dalla musica. Non dico “Puoi suonare più come il musicista tal-dei-tali?” ma piuttosto “Puoi essere più scuro in quel punto? Puoi essere più rabbioso in questo? Puoi suonare di meno in quell´altro?”. Questo è il modo in cui comunichiamo. Suoniamo e basta. E questa è una delle cose che amo di più venendo dal djing, dove non si tratta di suonare degli strumenti ma dei dischi di altri. È un po’ come essere dei bibliotecari, combinando assieme tutti questi pezzi di musica pre-registrata. E dopo questa esperienza mi trovo in una stanza con una batteria vera ed un contrabbasso ed io e Bernard e suoniamo dal vivo! È una cosa che amo. È quasi come essere in un quartetto jazz, suoniamo e basta.
Un po’ di tempo fa io e lui abbiamo suonato ad un concerto per beneficienza in onore di Bert Jansch ed è stato molto interessante. Bernard ha suonato con lui durante gli ultimi dieci anni della sua vita. Io non conoscevo veramente la musica di Jansch prima che Bernard me la facesse ascoltare, pensavo che non mi potesse piacere, che fosse troppo folk ma invece mi ci sono appassionato. Mi è sembrato di riconoscere una interessante miscela tra bellezza ed aggressività, il suo stile era al confine esatto tra folk e rock. È anche interessante notare come Neil Young fosse un grande fan di Jansch, tanto da invitarlo a suonare in America quando venne a sapere che stava morendo. Quando abbiamo tenuto quel concerto per me è stato molto interessante osservare le differenze di approccio che io e Bernard avevamo rispetto a quella musica: io cercavo la parte più melodica e poetica, Bernard l’aggressività con la quale Bert attaccava le corde della chitarra. È stato un grande incontro e per me rappresenta in microcosmo il modo in cui lavoriamo assieme. Il mio istinto è per l’atmosfera, la sospensione, la malinconia. Bernard è quello che sbatte la porta, fa rumore, si intromette bruscamente in quello che sto suonando io. Io suono qualcosa di bello, lui al contrario qualcosa di lacerante. È una combinazione che funziona, non ci intralciamo a vicenda ma restiamo comunque fedeli a noi stessi. Lo stesso è successo durante le registrazioni di “Fever Dream”. Entriamo in studio suoniamo con chitarre, effetti ed amplificatori simili ma ognuno produce un suono completamente diverso dall’altro, arriviamo da due direzioni diverse. È molto affascinante.
Ci puoi raccontare qualcosa riguardo gli altri artisti presenti in “Fever Dream”, ovvero Marissa Nadler and Hiss Golden Messenger?
Un mio amico che sta in America mi ha spedito il primo album di Hiss Golden Messenger album circa cinque anni fa. Sono le canzoni che Mike C. Taylor ha registrato seduto al tavolo della propria cucina. Lui ha fatto parte di una band hardcore industrial, poi in una band di West Coast rock-pop chiamata The Court & Sparks, dopodiché si è trasferito in North Carolina, si è messo a studiare la musica folk ed ha deciso che questa era quello proprio quella che voleva suonare. L’ho trovato subito molto interessante, per il modo in cui era passato attraverso questo processo arrivando a realizzare questo disco -intitolato “Bad Debt” – ed inoltre mi piaceva la sua voce ed il suo stile, l’onestà del suo approccio. L’ho trovato spirituale ma allo stesso tempo crudo. Gli ho scritto dicendogli “Gran disco!”. E lui mi ha risposto ringraziandomi. Da qui abbiamo iniziato a scambiarci e-mail e con il tempo siamo arrivati a parlare di lavorare assieme finché non è arrivata l’occasione giusta e l’ho invitato a cantare in “Fever Dream”. Ha subito capito la mia musica, da dove arrivava. È stato molto facile parlare di musica con lui e di come registrare certe cose.
Per quel che riguarda Marissa Nadler, anche in questo caso sono diventato un fan della sua voce e della sua combinazione di atmosfere gotiche e canzoni folk. Ho iniziato a pensare di aggiungere una cantante nell’ultima canzone del disco. Quel testo in particolare parla di un uomo che riflette riguardo una relazione sentimentale e volevo che vi apparisse anche una voce femminile. Nella mia testa potevo sentire il suono della sua voce accanto alla mia ed avevo la sensazione che potesse funzionare molto bene. Non sapevo come rintracciarla cosi ho provato a contattarla su Twitter. Le ho chiesto se ci potesse essere la possibilità di collaborare e lei mi ha risposto “Arriverò a Londra tra due settimane per andare ad un festival in Belgio. Sarò in un certo hotel, per un’ora. Se ce la fai a passare a prendermi e a portarmi nel tuo studio, canterò per te”. E così da un’ora siamo arrivati a tre.
Per chiudere vorrei farti ancora due brevi domande. Ti svegli mai pensando “Voglio mettermi a lavorare ad un certo beat che ho in testa perché mi è venuta voglia di fare di nuovo dell’elettronica”?
No.
E ti capita mai di scrivere una nuova melodia con la voce di Tracey in mente?
No! Due risposte oneste… C’è anche un altro fatto, io non compongo tutto il tempo. La gente si immagina “Oh Ben, si alza la mattina e si mette a fare un beat, poi compone una canzone e subito dopo scrive il capitolo per un suo libro”. Ma non è così. Ci sono molti periodi in cui non faccio altro che pensare ed assorbire idee finché non mi sento pronto per iniziare un nuovo progetto, e quando mi metto al tavolino un mucchio di quella roba esce fuori da sé. A quel punto scrivo molto velocemente. È un po’ come l’antica scuola della pittura classica giapponese, dove un pittore passava anni ed anni a pensare al più semplice dei soggetti e… (ride) dopo diciassette anni passati a a pensare il pittore fa così (Ben disegna qualcosa di astratto nell’aria)… ed il dipinto è finito. Forse sono un po’ cosi anche io.