Definire: “Determinare confini. Fissare i limiti, l’ambito di qualcosa”.
Per estensione: circoscrivere le possibilità.
Quello che è impossibile fare con il nuovo album di James Blake è proprio provare a tracciarne una descrizione. Chiuderlo in un cerchio di attributi, limitarne la portata escludendo tutti quegli ascoltatori che sulla carta non amano l’elettronica, o magari non apprezzano il neo-soul o non sono fan dell’ultimo pop. Il terzo disco del cantautore inglese è talmente pieno di influenze, ma allo stesso tempo scarno di elementi davvero differenzianti, che lo si potrebbe raccontare in due parole o in infinite righe, senza vie di mezzo.
Fermiamoci un attimo ad osservarlo attraverso i suoi elementi chiave.
Le tempistiche
The Colour in Anything è arrivato come un fulmine a ciel sereno in un periodo densissimo di album a cinque stelle, da Lemonade (su cui pure appare come writer e featuring) a Hopelessness, l’atteso debutto del trio Anohni Hegarty, Oneotrix Point Never e Hudson Mohawke. Ed è anche arrivato completamente in sordina, come ti aspetteresti dall’artista schivo e sommesso che è, alla mezzanotte tra il 5 e il 6 maggio di un 2016 che per la musica si sta dimostrando un’ottima annata.
È arrivato in sordina, è vero. Ma potentissimo nel suo rilascio felpato.
A cominciare dalla copertina, firmata da un magistrale Sir Quentin Blake (uno dei più grandi illustratori inglesi viventi e no, non sono parenti) e anticipata da alcuni billboard apparsi in giro per Londra senza preavviso alcuno. Una cover che ricorda la pittura di David Caspar Friedrich (il collegamento col suo quadro più famoso mi si è ficcato in testa dal primo secondo in cui ho visto l’artwork) e che è sintesi perfetta del contenuto: 76 minuti di canzoni (?) algide, ma piene di anima; dolorose, ma brillanti di speranza; urbane eppure universali.
Cosa aveva in mente James con questa scelta fuori tempo, ammesso che avesse in mente qualcosa? Da un lato si è fatto prendere la mano dalla moda dei surprise album (nessuna promozione – nessun singolo in anticipo – l’assenza come presenza), dall’altro si è scontrato con giganti molto al di sopra della sua portata, da Drake ai Radiohead. Eppure quella sera tutti – e sottolineo tutti, tra stampa e fan – erano concentrati su The Colour in Anything, lacrimando di piacere. Piccola dimostrazione che nel mare magnum della musica contemporanea, c’è ancora un valore aggiunto che solo l’artista può rappresentare.
La musica
Radio Silence è la traccia che apre questo viaggio plumbeo e battuto dalla pioggia, un anthem à la Blake. La battuta si invischia con scampoli di voce metallica, il climax emotivo cresce insieme all’intensità del piano. Doveva essere questo pezzo a titolare il disco, ma le (poche) sfumature di colore presenti nell’ensemble si sono rivelate ben più descrittive.
Il disco di James, a ben vedere, è fatto di pochissimi cardini strategici.
Primo tra tutti il loop: non soltanto sonoro, vocale, ma anche emotivo. La voce di Blake è un saliscendi melodico che non lascia spazio a variazioni, racconta poche storie con pochissime parole, stringando all’essenziale i testi. Ripetizione come ciclo, ma anche conferma che il cantautorato non ha bisogno necessariamente di complicate articolazioni.
Ci sono poi il piano e la voce: posato il primo, leggera la seconda. Marchi di fabbrica ormai, come il timbro gentile e le sintesi elettroniche. Non è facile memorizzare un pezzo di Blake, questa volta più che in precedenza, perché le oscillazioni sono minime e il carico emozionale perpetuo.
Lo spettro di generi esplorato è potenzialmente infinito: il trip hop degli anni ’90 lo ritroviamo sotto forma di elettronica nebulosa e stemperata, l’R’n’B è un approccio costante in tutto il disco, l’ambizione pop è accennata nella scelta dei collaboratori (Justin Vernon, l’attesissimo Frank Ocean) e dei produttori (7 tracce su 17 sono state prodotte da Rick Rubin nei mitologici studi di Shangri-La). Poche sorprese – Timeless e I Hope My Life su tutte – lasciano intravedere il retaggio sperimentale del progetto Harmonimix.
I temi portanti
Sono essenziali e sono di una classicità disarmante: l’amore (Tell me where I have to go and then love me there), l’incomprensione (I’m sorry I don’t know how you feel) e l’accettazione di se stessi (Choose Me).
Ma anche la scoperta dell’imperfezione, la cura di quello che abbiamo ricevuto in dono (Meet You In The Maze tocca il cuore e ci scava dentro) e, non ultima, una certa tossicità relazionale.
76 minuti mantenuti in vita da un continuo gioco di tensioni, da un equilibrio degli opposti: ballad romantiche VS synth pop, canto gospel VS vocoder, umano VS non umano. The Colour in Anything, se fosse un quadro, sarebbe tedesco ed espressionista. Se fosse una corrente di pensiero, sarebbe puramente massimalista. Se fosse una palette, avrebbe una gamma di colori che va dal grigio al blu. Forse per apprezzare questo disco bisogna porsi non da ascoltatori, ma da spettatori. Immaginarsi James su un palco spoglio, denudato di qualsivoglia mania di grandezza, mentre trasforma l’intimità in bellezza di dominio pubblico.
Ci troviamo di fronte a un ragazzo che non ha neanche 28 anni, ha prodotto due capolavori in un quinquennio e ora ci offre con gentilezza il terzo frutto di una maturità stilistica imbarazzante per noi coetanei.
The Colour in Anything è un album caustico. Ed è per questo che non è per tutti.