Nei primi trenta secondi del suo terzo album, Blood Orange cerca la nota, ma non può trovarla. Tasti neri e bianchi si addormentano in un vortice fascinoso, fino a raggiungere la rivincita: un inno all’identità, frutto dell’alleanza timbrica tra Dev Hynes e Ava Raiin, una delle svariate controparti femminili. “How could they know?” chiedono, carichi d’orgoglio. Inatteso giunge il primo di una decina di samples fondamentali per il concept del disco, più sudato e lucido del precedente. Una coppia di ottoni circonda una poesia spoken word di Ashlee Haze, meravigliosa definizione del femminismo più puro.
“As a women in my arena you are not my competition;
as a woman in my arena your light doesn’t make mine any dimmer”
–recita l’ode a Missy Elliott.
Consiste proprio di luce, la fiducia del trentenne inglese negli esseri umani composti di carne e cuore.
Infatti, Devonté Hynes -in arte Blood Orange, già Lightspeed Champion- ha composto Freetown Sound per se stesso, ma solo nella misura in cui si sente parte dell’umanità intera. Per la prima volta, nel suo percorso creativo è intervenuta la certezza che un grande, eterogeneo gruppo di persone avrebbe ascoltato il disco. Proprio per questo, alla vasta descrizione è preferita la frase nominale, e al sovraccarico la ripetizione. Il tentativo di toccare, con testi e suoni, la più diversificata fetta di pubblico possibile, avviene in risposta ad un momento storico delicato se non tragico per un nero negli Stati Uniti: “Don’t shoot”, implora la traccia dieci; “no one really cares”, “cry and birth my deafness while Trayvon falls asleep”, sussurrano altri due brani.
Anche la copertina è prima di tutto un elogio alla pelle scura: un’intimità disarmante è vegliata esclusivamente dal re del pop -ovvia ispirazione per Blood Orange- e l’Africa, da quel letto dorato, traspare e pulsa con fierezza.
La riscoperta delle sue origini è iniziata tre anni fa, con il viaggio in Guyana documentato nel video di Chamakay; di lì in poi, percussioni sempre più etniche e periodi sempre più misurati.
Qui siamo invece a Freetown, fonte paterna nonché meta degli schiavi liberati e simbolo di cristallina cristianità. Mentre in Cupid Deluxe il continente nero agiva da ispirata deviazione, ora è il punto di partenza.
L’Africa è il luogo in cui tutto è caldo e reale; il luogo in cui toccare chiunque si voglia toccare.
Dal canto di una sessualità complessa e intelligente, Dev celebra la forza di chi ha il coraggio di scavare e mostrare le mani, di tranciare il lucchetto di un diario segreto. Desirée -la traccia più ballabile del disco- è incorniciata da un estratto di Paris is Burning, in cui la drag queen Venus Xtravaganza descrive la brezza dolceamara che impregnava la New York di fine anni Ottanta. Senza l’estetica di quel contesto specifico, Blood Orange non esisterebbe: gli spezzoni di dialogo -alla Donuts maniera- sono ancora più personali delle sue parole, dei suoi strumenti. L’intimità del messaggio aumenta se è filtrato da una voce femminile: persino Carly Rae Jepsen e Nelly Furtado, azzeccate e riconoscibili, fungono da estensioni della sua persona.
È proprio la donna a scrutare l’obiettivo nella foto di copertina, estrapolata alla perfezione da un lavoro di Deana Lawson datato 2009. Gli occhi chiusi dell’uomo, seduto, trovano infrangibile riparo nella presenza di lei, in piedi a custodire ciò che scalda la camera. Si tratta dell’esperienza per eccellenza, materia poetica e arma mastodontica: l’amore.
Tradotto in un sinonimo ad oggi desueto, rimbomba con clamore incontenibile: libertà.