Una cosa è già riuscito a replicarla: far parlare di sé. In poche ore dall’uscita pare che chiunque abbia un paio di orecchie abbia già sviluppato un’opinione granitica su TERRA, il quarto disco de Le Luci della Centrale Elettrica. E non si tratta di un’opinione qualunque, ovviamente, una cosa moderata e tiepida, no: il mondo social è spaccato tra quelli che “Madonna, è bellissimo!” e quelli che “si è rincoglionito – è diventato nazionalpopolare – ora scrive la canzoni per Jovanotti, che schifo“. Quelli a cui non è mai piaciuto non li considero perché, in effetti, non sono miei amici.
Se posso dire la mia, è vero che Vasco Brondi ha scritto una hit per Jovanotti (la famigerata L’estate addosso) ma è anche vero che il testo parla di uno che ha un braccio rotto in pieno agosto e forse ci riesce a rimorchiare, un livello di sfiga che ricalca, se vogliamo, l’immaginario brondiano. Poi vabbè, Jovanotti fa il naif, va a pescare nell’indie per tirare fuori l’unico pezzo ascoltabile di un doppio album che è uno strazio, ci monta sopra un arrangiamento che è una garanzia e salva la stagione. Ci sta, insomma, è un po’ come Fabio Fazio che scopre gli XX nel momento in cui fanno sold out.
Ok, chiusa parentesi.
La difficoltà vera è avere un’opinione che sia equilibrata su Le Luci, perché qua si parla dell’immaginario di un’intera generazione che con brani come La Gigantesca Scritta COOP ci è cresciuta, ci è diventata adulta. Bisogna prendere la voce di quei fan lì che non vogliono essere delusi e sommarla a quella degli strati successivi di pubblico, gli strati che fanno sì che ora, Vasco, riempia i più grandi club d’Italia rimanendo il personaggio schivo che è sempre stato.
Ma è possibile unirli questi due mondi? A ben vedere un fil rouge c’è e in TERRA lo si sente ancora nitidamente, anche se è amalgamato in un arrangiamento più ricco, con sonorità morbide che rendono il risultato fresco e colorato come mai ci saremmo aspettati dal nostro.
Emblematica la traccia di apertura, A forma di fulmine, che non sfigurerebbe come canzone finale di un kolossal holliwoodiano, pur poggiando solida sui “soliti 3 accordi” di chitarra.
La notizia vera, infatti, è quello che Brondi riesce a fare con quei soliti 3 accordi e lo svela subito in Qui, seconda traccia del lavoro, che sfoggia un beat del tutto inedito per i fan del ferrarese –merito di Paolo Baldini che ha mixato insieme a Brondi tutto il disco, mescolandolo con un cantato sincopato e ansiogeno, privo di strazio e più vicino al parlato, per confezionare il tutto con un eco di canti africani.
Provate a definirlo neomelodico, provate a dire che è sempre uguale.
Non c’è niente di uguale al passato in questo disco ma è un continuum con il percorso artistico e, forse, personale di un 33enne che riesce ancora a dettare la linea di un certo immaginario, evolvendolo.
Se in Costellazioni si aprivano le finestre degli appartamenti subafittati, ora si fa lo zaino e si va a vedere il mondo là fuori, fuori dai confini e dall’occidente grigio che tutti conosciamo.
Si sente più che mai in Nel profondo Veneto, brano che al primo play riecheggia il Re Leone e le sonorità africane in maniera inquietante. Un gioco piuttosto facile se vogliamo, meno facile saperci scrivere sopra un testo che parla di fallimenti e di ritorni alle origini. È questa forse la traccia più caratteristica del nuovo corso intrapreso da Le Luci della Centrale Elettrica, quello dell’indulgenza. Una gigantesca presa di coscienza con l’imperfezione della razza umana cui tutti apparteniamo e con cui dobbiamo, prima o poi, fare i conti. Perciò si può tornare alla provincia da cui si era scappati con una valigia di fallimenti e dei segni addosso impossibili da nascondere ma ricevere in dono la protezione della propria gente, come una sorta di tribù che ti riammette tra le proprie fila, senza giudicarti.
In fin dei conti l’intero disco è un inno all’umanità, intesa come grande tribù di appartenenza ma anche come specie imperfetta, colorata e spaventata, scaraventata sul mondo da una tecnologia ossessiva (la meravigliosa Iperconnessi) eppure spesso straniata dalle leggi che regolano la natura che la circonda (Chakra) o dalla propria pochezza (Moscerini).
Un immaginario allargatissimo, cresciuto, conscio dei propri limiti ma non per questo arreso. Il tutto montato su impianto sonoro che attinge a piene mani alle tradizioni più disparate, dal folk al cantautorato dei nostri padri, con rimandi al De Andrè più popolare e al Dalla più melodico. Per concludersi con la traccia che pare essere manifesto del nuovo corso intrapreso da Brondi: Viaggi disorganizzati. Qui Vasco ritrova in parte il suo stile più classico per renderlo corale e grandioso, uscendo dal tempo ed entrando così nella memoria di una collettività fattasi forte delle proprie sconfitte.
Un disco non perfetto, che tratta con sguardo amorevole la policromia della razza umana, perdonandola ed esaltandone allo stesso tempo la forza. L’esercito del SERT si è svegliato.