Seduto in una scatola di luce. Sdraiato su un fianco, a qualche metro dal terreno. Puntato da un ninja. Accovacciato, assorto.
La performance di Kendrick Lamar al Coachella -una delle più complete e travolgenti che il festival californiano abbia mai visto- funge da emblema delle mani salde in cui l’hip hop risiede, in un 2017 più tragico che comico. Kendrick è contento di stare scomodo; per sfidare il mondo, deve sfidare se stesso.
untitled unmastered ha dimostrato come ogni sua approssimazione sia in realtà precisissimo studio, e come ogni capolavoro sia frutto di svariati e privati tentativi. La sfida di DAMN., dunque, è riportare K.Dot sulla terra.
Più che mai, le sensazioni che racconta sono umane: ain’t nobody praying for me, afferma la trama di vulnerabilità del disco.
È talmente consapevole di quella figura allo specchio da poter rinunciare, per una volta, ad un forte topic di fondo: è una collezione di canzoni, profondamente americane e nere, concettuali ma reali.
DAMN quanto amore, DAMN quanto dolore, DAMN che furbizia, DAMN quale ingenuità.
Analizzabili all’infinito, le tracce sono sia umori che storie, provocazioni per tutti ma prima per se stesso. It was always me vs the world, until I found it’s me vs me canta Bēkon, voce selezionata proprio perché non riconoscibile, quindi tendente ad una virtuale oggettività.
Constatata l’impotenza del popolo -non può essere vero, che Trump sia salito all’ufficio- l’unico modo per cambiare qualcosa è integrare se stessi, dissezionare le proprie emozioni. Come in ogni sua impresa, Kendrick affronta il progetto con un tasso folle di disciplina. Sa che il suo cuore è importante, più di tanti altri: oh my, my heart is rich, my heart is famous. I sentimenti sono dunque descritti in maiuscolo, a formare nella tracklist un elenco di frasi nominali appuntite.
Con il suo vocabolario sempre flessibile e stratificato, fa da contraltare a tutti i rapper che affollano le classifiche, conquistandole a modo suo: se loro rappresentano un volantino o una brochure, Kendrick è una serie di enciclopedie. Cerca e trova la costanza, e ogni suo album è da cornice. Nella cornice di To Pimp A Butterfly c’era lo stato del mondo, come estensione della storia afroamericana; il quadro di DAMN. raffigura una persona stimolata in ogni direzione da mille forze opposte. Solo scrutandole, può comprenderle. Porge la guancia ai vizi per prendere atto della sua fallibilità: come le ambizioni di vetro raccontate sei anni fa in Poe Man’s Dreams, gli stereotipi di LUST. e HUMBLE. acquisiscono nuovi strati di senso se contrapposte a FEEL., LOVE., PRIDE..
L’amore ha un suono fresco, batterie lucide, e la giovane energia di Zacari; l’orgoglio ha la bizzarra maturità di Steve Lacy e Anna Wise; la paura, divisa in tre decenni di vita, ha la forza senza tempo dei samples di Alchemist.
Ogni riferimento è un’arma di introspezione. La fede, la morte, il successo, la famiglia: quello che accade sulla Terra rimane sulla Terra, e dare tutto quello che si ha -forgiare un’opera d’arte dopo l’altra, in questo caso- è questione di umiltà.
Una volta sul nostro pianeta, Kung Fu Kenny –nuovo alter-ego, che menziona Don Cheadle giusto per aggiungere stimoli segreti ad un lavoro già straripante- gode comunque di uno stato di coscienza superiore.
Innanzitutto, mette nero su bianco l’epidemia: il fardello della povertà non è una scelta, è triste destino; le minoranze saranno sempre soggette ad atrocità, come sostiene la Bibbia.
Parallelamente, smaschera la cura: riconoscersi come Israeliti, in linea con il Deuteronomio, e guardare nella propria carne.
La fede è un’arma in più, e l’alleanza con Yahweh assomiglia ad una relazione complicata: Kendrick rende un credo sensuale, e sembra dirci “non potete capire”.
Chi davvero non può capire è Geraldo Rivera, reporter di Fox News che condannò come immorale una performance di Alright. Quel che Skepta fece in Shutdown, Kendrick lo pratica a nome di una nazione quaranta volte più estesa: campiona lo spezzone di notiziario incriminato, per poi gridare lealtà, regalità, e altre cento ragioni di distinzione dagli avvoltoi.
Scegliere la strada giusta è il tema dell’intro BLOOD. e del colpo di scena più impressionante di DAMN.: DUCKWORTH. è la storia intrecciata del padre di Kendrick e di Top Dawg, capo dell’etichetta di Lamar e compagni, che con un incrocio di coincidenze leggermente diverso avrebbe ucciso il padre di K.Dot, impedendo che Kendrick venisse al mondo. Guardare nella propria carne, appunto.
Ancora più di Good Kid M.A.A.D. City, DAMN. brilla di una versatilità unica: questa musica funge da riparo per chi respira la crudeltà delle strade, ed è al contempo materia di studio per intellettuali d’ogni dove.
Sfiora ogni funzione possibile dell’hip-hop, e abbraccia tutte le sue epoche: 9th Wonder, Alchemist, Kamasi Washington, Thundercat e i BADBADNOTGOOD contribuiscono a citare soul e old-school, complici le introduzioni da anno 2000 di Kid Capri; Mike Will Made It, DJ Dahi e Sounwave plasmano un suono più attuale, seppur vividamente sperimentale, con aiuti inattesi firmati Ricci Riera, James Blake e Bēkon.
Kendrick Lamar siede nel suo studio. Pensa, pensa e ripensa.
Today is the day I follow my intuition, ma è molto di più che semplice intuito: nessuno, in questo momento storico, tiene alla responsabilità dell’arte quanto lui.
Una volta creato un disco, secondo Kendrick l’arte al suo interno diventa nostra. Ad ognuno dei primi dieci estasianti ascolti, ne diventiamo sempre più gelosi: ognuno di noi si relaziona a verbi diversi, ognuno stringe aggettivi diversi e si immerge nell’epoca che reputa più sua.
“Quest’album è solo mio”, mi viene da pensare. Lo penseranno in tanti, e lo faranno per tanto tempo.