Arthur Russell è stato una persona.
Arthur Russell è stato una persona complessa, ragazzo di campagna timido e brutto trasferitosi in città, dove ha scoperto di essere omosessuale, di esser bello anche se non ci si riusciva ad abituare e soprattutto di essere un genio musicale.
Arthur Russell rimane però prima di tutto una persona.
La sua parabola musicale, così incredibilmente eterogenea, complessa e confusionaria, ce lo conferma sempre e comunque, che in fondo altro non era che l’archetipo dell’essere umano, fragile e debole così come capace di una forza intellettuale inaudita.
Nato nel 1951 nelle campagne dell’Iowa cresce come prodigio musicale e vorace lettore, fin quando a diciotto anni non sconvolge la tranquilla vita dei genitori annunciando di volersi unire ad una comune buddhista di San Francisco.
Il periodo passato nella città hippie per eccellenza è un momento di crescita personale che gli fa capire che non è completamente quello il suo mondo di appartenenza, ma gli regala anche un incontro chiave per tutta la sua vita e carriera, quello con Allen Ginsberg.
Per il guru della beat-generation il giovane Arthur compone mantra e lo accompagna nella recitazione delle sue opere con quello che è il suo strumento d’elezione, il violoncello, passione ereditata dalla madre.
Alla metà degli anni ’70 prende la decisione (anche grazie all’aiuto di Ginsberg) di trasferirsi a New York, dove si immerge completamente nella vita e nel mondo musicale della grande mela, stringendo rapporti e collaborando con praticamente tutte le personalità di spicco di qualunque genere.
Qui comincia ad acquisire sempre più consistenza la sua produzione musicale, che nei primi anni ’70 è rivolta ad un folk delicato e commovente dal feeling ancora prettamente adolescenziale:
Questa prima parte della sua permanenza nella grande mela è inoltre caratterizzata da un’intensa attività collaborativa con i più disparati musicisti e gruppi, fra cui spiccano i The Flying Hearts (con cui incide anche in studio), Peter Gordon, Peter Zummo, David Byrne con i suoi Talking Heads e più avanti John Cage.
E’ facile immaginare come la transizione dalla comune hippie e dalla calda figlia dei fiori San Francisco, alle strade dure, grigie e spietate della New York degli anni ’70 possano aver influito in primis sulla personalità e sull’umore del fragile Russell e di conseguenza sulla sua musica.
Nonostante infatti continuasse ad abitare in una sorta di comune, un palazzo condiviso con altri artisti e musicisti (fra cui lo stesso Ginsberg), e fosse diventato il direttore artistico di “The Kitchen”, uno spazio (situato nel Greenwich Village) multi-disciplinare nato per ospitare arte sperimentale e d’avanguardia, la sua musica cominciò a mutare. Non più folk delicato, ma una specie di pop ricercato, un suono e delle strutture estremamente personali, a volte quasi inaccessibili tanto sembrano essere una diretta emanazione della contrastata, sfaccettata e difficile personalità del musicista.
L’esempio principe di questo momento è la serie di composizioni orchestrali definite “Instrumentals”, sui cui lavorò dal 1975 al 1979 con un ensemble composto da Glenn Iamaro, Bill Ruyle and Jon Sholle. Non sono composizioni minacciose o oscure, anzi il contrario, nascondono però un’inquietudine ed una complessità di pensiero impossibili da non percepire.
Nella musica di Russell, in tutte le varie forme che il compositore gli fa assumere, dal folk alla musica contemporanea, da quella orchestrale all’avanguardia pura, è sempre in qualche modo percepibile un filo conduttore, psicologico ancor prima che artistico: l’ossessione di avere successo.
Questa pulsione la ritroviamo in quasi tutti i suoi lavori ed è confermata dagli atteggiamenti al limite del paranoico di Russell, che a volte giunse a pensare che musicisti più famosi rubassero le sue idee. Un’ossessione che tramutandoci in psicologi da quattro soldi sarebbe facile far risalire alla difficile adolescenza di un ragazzo omosessuale e colto da una violenta forma d’acne (di cui porterà le cicatrici per tutta la vita), vissuta negli anni ’60 in una cittadina in campagna dell’Iowa; una continua ricerca di approvazione, di accettazione.
Anche per questo ho usato ed userò ancora il termine “adolescenziale” circa la sua produzione, riferito non alla tecnica musicale, quasi sempre concettualmente all’avanguardia ed innovatrice.
Adolescenziale è il modo in cui tramite la musica ricerchi il successo, mettendo al servizio del suo ego ferito il suo genio compositivo e viceversa, in un circolo vizioso destinato a non soddisfare nessuna delle due cose.
Questo perché c’è “troppo” Arthur Russell nella sua musica, difatti Arthur Russell è la sua musica, ed anche per questo la sua produzione, comprensione e percezione all’epoca risultava così complessa e non solo: risulta difficile anche per lui accettare il poco riscontro, e concepirla come un corpus che necessita di un minimo di ordine per essere digerito e capito dagli altri.
Nelle parole del critico musicale David Toop nel bellissimo biopic “Wild Combination – A Portrait Of Arthur Russell”, “uno dei veri paradossi della vita e del lavoro di Arthur Russell è che voleva chiaramente avere successo, ma non aveva praticamente nessuno degli attribuiti che ti fanno diventare famoso nell’industria dell’intrattenimento: viveva un’utopia creata da lui stesso, in un mondo complicato che reinventava continuamente”.
Una parziale eccezione a questo discorso è legata alla sua produzione in ambito disco-music, quella forse ancora oggi più celebrata ed anticipatrice, iniziata sotto il nome di Dinosaur alla fine dei seventies con il singolo “Kiss Me Again” (l’irresistibile chitarra funk è dell’amico David Byrne)
E’ paradossale, soprattutto alla luce del discorso appena concluso, come la parte più di successo della sua opera sia l’unica firmata da uno pseudonimo.
Russell continuò a produrre disco-music dal forte accento funk ma con sonorità anche inedite ed audaci (come poliritmie ed improvvisi interventi del suo violoncello) fino alla metà degli anni ’80, fondò con l’amico William Socolov la Sleeping Bag Records, che diede alla luce il suo album di maggior successo sotto lo pseudonimo Dinosaur L, 24-24 Music da cui venne estratta la hit “Go Bang”.
Russell fece esplorare al genere disco-funk una nuova serie di orizzonti sonori e concettuali, come quello africano ed indiano, abbattendo le barriere che c’erano fra questo e la musica underground “colta” e d’avanguardia tipicamente newyorkese, ancora una volta grazie alla forza della sua straordinariamente complessa personalità.
L’unico album pubblicato con l’autore ancora in vita, e quindi con composizioni da lui selezionate in un momento ben preciso, a poter essere considerato un po’ la summa di più parti importanti del suo stile (oltre anche ad essere criticamente acclamato) è “Word Of Echo” del 1986.
Qui la voce melliflua e sognante di Russell è la protagonista insieme al suo violoncello, ricoperto spesso dai più disparati effetti, accompagnati a volte da inquietanti ed organici loop ritmici.
A volte lo strumento sembra essere una chitarra acustica, altre una chitarra elettrica distorta al massimo, altre volte ancora un basso od un sintetizzatore: Russell ci ricorda che non è solo un compositore raffinato e complesso dei più disparati ed apparentemente opposti generi, ma in primis anche uno strumentista innovatore che plasma il suono del violoncello a suo piacimento, anticipando di molto esperienze contemporanee fra le più innovative ed interessanti.
Arthur Russell muore di AIDS nel 1992 a soli quarant’anni. La sua produzione è stata riscoperta negli ultimi anni sempre di più, ed ha influenzato moltissimi artisti contemporanei da Devendra Banhart (che ha anche suonato un suo pezzo) ad Arca.
Ci sono altre esperienze che ho lasciato fuori appositamente nel cercare di riassumere la sua parabola artistica nel miglior modo possibile (ad esempio il difficile rapporto col teatro), provando a concentrarmi solo sulla musica.
Da alcune osservazioni potrebbe sembrare che giudichi la sua arte leggermente oscura, quasi frustrante e molto difficile: effettivamente è così.
Questa complicatezza però, questa tristezza di fondo mista a tutto lo spettro delle sensazioni ed emozioni umane è esattamente ciò che rende così speciale e commovente la musica di Arthur Russell. Possiamo percepire chiaramente un caleidoscopio di emozioni che si accavallano l’una sulle altre, annullandosi a vicenda e creando una confusione incredibile, a volte in modo gioioso e giocoso, altre in una spirale negativa e pericolosa, ma sempre e comunque incredibilmente umana, vera e che colpisce.
Non solo: ci sono alcuni musicisti (artisti in genere) che sono una variante del “troppo avanti per la loro epoca”. Sono quei musicisti che non vengono riscoperti e diventano famosissimi dopo la morte come spesso accade a quella categoria, ma che hanno un’influenza più sottile e determinante, perché vanno a formare e diventano di culto quasi esclusivamente per altri artisti, quelli della seguente generazione.
Arthur Russell è uno di loro.
Come dicevo all’inizio però, in fondo Arthur Russell è prima di tutto “semplicemente” una persona, l’archetipo di un essere umano che, così come detto nuovamente da David Toop, “riuscì a permettere a sé stesso di esprimere completamente la propria complessità”.
Un qualcosa che in pochissimi riescono a concedersi, ed in definitiva un enorme messaggio di speranza ed amore.