Ecco il racconto che Natalia ha scritto questa domenica per la rubrica “Le Storie Della Fantasia”. Buona lettura.
Tre coniglietti in cappotto d’origami
Una nuvola aveva finito il suo turno mattutino e mi spingeva verso casa.
Era mezzogiorno quando entrai nella chiostrina con la cartella sulle spalle e un pennello nuovo di zecca stretto nella mano destra.
Ezio, il portiere in papillon, era intento a sistemare il suo armadietto d’origami: era un vero professionista, e non si tagliava proprio mai.
La nostra amicizia nacque quando, con uno scontrino del panettiere, creò per me una ballerina di danza classica, chinò lentamente il capo folto e tornò, silenzioso, nel suo piccolo e misterioso ripostiglio. All’inizio del mese, mentre spolverava le cassette delle lettere con uno dei suoi fazzoletti bianchi – sempre eleganti e ricamati – mi rivelò che per quella Primavera, si sarebbe dedicato a tutto ciò che poteva volare su in cielo.
“Ha un uccellino preferito, signorina Livia?”
“Il pettirosso”
Mi era proprio simpatico, il pettirosso, con quella sua pancia paffuta e gli occhi perennemente sorpresi. Uscita da scuola, quella mattina, corsi in cartoleria a prendere per lui un nuovo pennello dalle punte delicate, adatto a tingere il petto di quello che sarebbe stato il nostro nuovo comune amico con le ali.
“Buongiorno signorina”
“Buongiorno signor Ezio”
Stirai un poco la gonnellina blu a vita alta con la mano e mi avvicinai a lui posando alla sua scrivania il pennello.
“Ecco a lei.”
Non fece in tempo a ringraziarmi che cominciò a starnutire con gran vigore.
“L’allergia! C’è un brutto polline in giro, signorina Livia, stia bene attenta!”
“Lo farò,” cercai di continuare il discorso, ma venni interrotta dai tre coniglietti nani della signora del quarto piano. Uno di loro, spaventato che mi potessi dilungare in quella che, converrete, era stata una lunga e ricca conversazione, decise di abbassare per ripicca uno dei miei calzini a righe. Mi fece segno di guardare il suo orologio, e pensai che sarebbe stato più educato lasciarli salire sul treppiedi di Ezio, e farsi prendere le misure per i loro cappottini di carta. Il veterinario aveva detto a tutto il palazzo quant’erano cagionevoli, quei tre, così piccoli e gracili, forse un poco denutriti.
Salii le scale, e, arrivata a casa, trovai Rita con gli occhiali appannati di fronte ai fornelli, la salutai nella foschia e arrivai in camera. Era piuttosto disordinata, e per pigrizia ricorsi a un vecchio trucchetto: decisi di alzare lievemente la maniglia con l’indice e in men che non si dica, la camera era in ordine. Presi il binocolo dal primo cassetto del comodino e mi accostai alla finestra: Martino era lì, sulla sua sediolina di legno a guardare ancora lui. Hitchcock.
Oggi era la decima volta de Gli uccelli, ieri era l’ottava de La donna che visse due volte, ieri l’altro la quinta de L’uomo che sapeva troppo. Alle volte lo vedevo prendere il telecomando, fermare la pellicola e avvicinarsi cauto, più veloce ad ogni passo, ad un diverso, nuovo, algido volto di donna. Ogni volta erano bionde, ogni volta avevano acconciature impeccabili.
La storia degli impacchi di camomilla andava avanti ormai da giorni. Portavo con me bustine gialle e profumate nella tasca esterna della cartella due volte a settimana, pronta a sbottonarla alla fine delle ripetizioni di Latino. Ad aiutarmi era la signorina Crescimbene, una bella donna sulla sessantina, con gli occhi d’un azzurro chiaro chiaro, paragonabile, occhio e croce, alla tinta numero 16 della mia collezione di matite colorate preferite, e una strana predilezione per gli zoccoli del Dr. Scholl. Quando, con noncuranza, scrutavo i suoi piedi, decisa, riprendeva la mia attenzione – “Erano gli zoccoli destinati a Twiggy, bimba”.
La guardavo poi un po’ smarrita, ma non la contraddicevo. Dopo le nostre due ore accademiche, proponevo sempre di mettere sui fornelli un bel tè caldo, e la vecchia annuiva. L’unica cosa che in comune avevano le nostre tazze, però, era l’acqua: nella sua, facevo galleggiare tre bustine di valeriana, nella mia, altrettante di camomilla. Al quinto sorso, la signorina si addormentava beata, e io passavo qualche minuto davanti al suo imponente armadio a muro a scegliere uno degli asciugamani di spugna della sua collezione per avvolgerci i capelli poco più tardi. Nulla da farsi. Uno di loro, schiaritosi appena, s’innamorò di uno dei denti della mia spazzola, e dandosi la mano, scapparono insieme nel secondo cassetto del mobiluccio del mio bagno.
Pensai allora di cambiare tattica: potevo sempre provare a comportarmi come Tippi Hedren, Kim Novak e Doris Day. Andai al negozio d’uccelli del nostro quartiere, ma nonostante avessi passato una mattina a scambiare canarini per inseparabili davanti al proprietario attonito, lui non arrivò. Due giorni dopo, presi il tram e andai fino al museo, in centro. Nonna prima d’uscire mi aveva fatto uno chignon coi fiocchi, ma non trovai nessuna fanciulla con mazzolini di fiori, nelle sale, davanti alla quale sedermi contemplativa. Verso la fine della settimana, in un tardo pomeriggio, cantai Que sera, sera all’entrata del suo condominio, ma non lo vidi arrivare correndo per le scale. Di ritorno nella chiostrina, trovai Ezio: posò piano il pettirosso sul palmo della mia mano, e tornò nel ripostiglio, starnutendo. Mi accostai alla sua porta socchiusa, aprendola un poco. La scrivania era ricolma di mongolfiere d’origami. Disse di essere sceso a patti con le api, ché ormai l’allergia era insostenibile, aveva cominciato a lacrimare e a sciupare i suoi lavori di carta, e che aveva loro offerto, per volare via dal nostro municipio in maniera rapida e sicura, di fargli trovare tutti quegli aereomobili sull’erba della chiostrina, domani stesso, con partenza al “A tavola” del condominio.
E “A tavola!” disse mamma, il giorno dopo.
Lei, papà ed io, prendemmo posto a sedere, mentre Rita faceva scorrere le ruote Barilla sui nostri piatti fondi e accoglienti attorno al pettirosso di carta, ormai ufficialmete riconosciuto centrotavola. Sotto la tavola, tenevo stretto tra i piccoli pugni il tovagliolo, guardando attentamente verso la terrazza, aperta, che pure dava all’appartamento di Martino.
Presi la forchetta, e – mentre gli altri erano intenti ad assaporare la salsa di pomodoro – vidi salire lentamente delle mongolfiere rosse lungo la ringhiera del terrazzo, roteare attorno ai garofani, allontanarsi spaurite dalle spine delle rose lungo la ringhiera del terrazzo.
Cercai di non perdere d’occhio, in quella folla di palloncini volanti, la finestra di Martino, alla quale s’accostò una mongolfiera con tre coniglietti in cappotto d’origami, che, tutto a un tratto, bussarono.
Nel frattempo, una di loro si abbassò a pochi centimetri dal nostro parquet, riprendendo quota a forza di piroette, lungo la gamba della mia sedia: a bordo c’era un’ape. Con fare sicuro, svuotò il cesto che si trovava sulle sue minuscole zampe sulla mia testa: i miei capelli erano una distesa di polline. Strofinai con la mano l’occhio sinistro, pensando che vi fosse rimasto impigliato qualche chicco. Riaprendolo, incontrai lo sguardo di Martino. Sorrideva. Ora le mie ciocche erano bionde e le mie guance avevano il colore del petto del centrotavola.
“Livia, tutto bene?” – disse la mamma, versandomi dell’acqua nel bicchiere blu. “Tutto bene, tutto bene, solo un poco d’allergia”.