foto di Roberto Panucci |
Race for your life, Charlie Fink!
(Scusassero se la citazione non è di quelle da cinema d’avanguardia, né tantomeno da nouvelle vague. Scusassero lorsignori, ma questa è la patria del POP. E questo è l’ultimo avvertimento: fuggite, se quelle tre lettere vi scatenano reazioni allergiche e pausinite.)
Ieri sera ero al Circolo degli Artisti, per la prima data del tour autunnale dei (quasi) londinesi Noah and the Whale. Cinque ragazzi “per bene”, che si presentano sul palco facendo sfoggio di doppi petti, cravattini e bretelle. Quanto di meglio l’immaginario italico riuscirebbe a produrre in tema.
E lì finisce il loro essere in qualche modo prevedibili.
Ieri ero al Circolo degli Artisti, e suonava questa band inglese niente male. C’erano pure Carlo che stravede per i Kasabian, Dario che sogna di rinascere negli anni ’40 per andare a Woodstock da ventenne, Silvia che vorrebbe essere Laura Marling, e poi Chiara che seguirebbe gli Incubus in capo al mondo e Leonardo e Valerio che la notte sognano elefanti che suonano ukulele (scusate se continuo con le citazioni di bassa lega, ma siamo ancora impantanati nel POP).
Noah and the Whale si sono presentati al mondo nel 2008, con un album dal titolo “Peaceful, The World Lays Me Down“. Dove melodie a volte languide, di sicuro molto affascinanti, cullavano l’ascoltatore, fatto stendere su un sofà di ukulele e chitarrine solleticanti.
Nei primi mesi del 2009 ci hanno spezzato il cuore prima con le vicende sentimentali del buon Charlie, poi con la notizia della dipartenza di Laura Marling (splendida nei cori del primo disco, e non solo come fidanzata del suddetto), e infine con “The First Days Of Spring“, un disco che si leggeva rinascita ma suonava tanto malinconia per il passato.
Ed eccolo finalmente “Last Night On Earth“. 2011, marzo. Un disco che sta tutto nel titolo e nel coro trascinante di L.I.F.E.G.O.E.S.O.N., il singolone, la canzone che urlava “ehi voi là fuori, noi siamo pop!”.
Noah and the Whale sono 5 ragazzi (quasi) londinesi, che dal vivo sanno mischiare tutte le suggestioni e le emozioni dei loro primi tre album. E allora capita di passare da un inno indiefolk come Rocks and Daggers alla trascinante melodia pop di Tonight’s The Kind Of Night (where everything could change, a ribadire che c’è una vita da gustarsi momento per momento), con tanto di ritornello urlato al cielo. Dalle ballatone condite da vocione suadente come Wild Thing, alle tastiere alla Coldplay (e su cui esplode improvviso un coro gospel) di Old Joy. Ai suoni un po’ eighties della splendida The Line. Fino al trionfo dell’ EL-AI-EF-I-GI-O-I-ES-O-EN (per chi non lo conoscesse, sto parlando del ritornello della già citata L.I.F.E.G.O.E.S.O.N. – che mi ricorda in qualche modo la Jesus in a Camper Van del primissimo Robbie Williams, quello che faceva cantare il popolo di Glastonbury nel ’98, proprio lui: il miglior esponente di quel brit-pop che questi ragazzi sembrano aver ascoltato, digerito, rinnovato).
Per chiudere il tutto con una cavalcata in stile The National: The First Days Of Spring, per cui il batterista Michael Petulla si munisce di battenti e indica agli altri la strada, col suo incedere cadenzato, fino all’esplosione del brano, a ricordarci la differenza tra ballatona furba poggiata su una chitarra melodica e pezzo rock armonico. Un finale di concerto che la gente di Roma sembra apprezzare oltre ogni aspettativa, almeno a giudicare dal convinto e lungo applauso che saluta l’uscita di scena dei cinque (e la successiva razzia di cimeli).
Che dire di più? Se la voce di Charlie Fink era sempre stata convincente, e il suo abbandono dell’ukulele aveva suscitato un po’ di delusione nei fan della prima ora, il violino di Tom Hobden è oggi la perla racchiusa nella conchiglia, seppellita sotto la sabbia del mare – non sempre limpido – di band indie in cui sguazziamo da dieci anni. Le chitarre di Matt ‘Urby Whale’ Owens (prevalentemente al basso) e Fred Abbott (che suona anche le tastiere) una certezza. E un Michael Petulla talmente a suo agio alle percussioni da farle sembrare banali, in alcuni frangenti.
Più di tutto mi convincono gli arrangiamenti e l’esecuzione live, questa capacità di saltare da un genere all’altro senza far percepire una distanza, senza pagare in termini di volumi e di qualità media dei pezzi, e senza mai perdere il contatto coi fan. In una parola, la capacità di piacere a tutti (se mi passate il minisondaggio, basato su Carlo, Dario, Silvia, Chiara, Leonardo e Valerio – e me, ovviamente).
E sì, questa è proprio una conclusione degna di una recensione di un concerto POP(*).
se avete letto sin qui, vi meritate un regalo. Un brano in download gratuito, offerto sulla pagina Soundcloud dei Noah and the Whale.
Give It All Back (Live From RAK Studios) by Noah and the Whale
p.s. “is this the line between heaven and hell?” è la domanda che credo si sia fatto chiunque abbia valicato la porta della sala del Circolo in cui i nostri si sono esibiti, dove si registrava una temperatura compresa tra i 30 e i 40 gradi.
(*) declinazione del verbo: mettere le mani avanti.