Lo scorso 12 settembre gli emiliani Three in one gentleman suit hanno pubblicato il loro quarto album: Pure. Che arriva a 3 anni dal precedente, e dopo un anno pieno di lavoro. Anno durante il quale hanno trovato il modo e il tempo di regalarsi anche un tour in Cina.
In un solo mese, dal sito della loro etichetta, la Upupa produzioni, più di 2mila persone hanno approfittato del download gratuito (ancora valido a questo link – se invece preferite lo streaming, lo trovate qui).
Dopo aver ascoltato l’album, abbiamo deciso di chiedere all’amico Enrico Veronese (Enver) di intervistarli per DLSO. Per la nostra gioia, e davvero eccezionalmente, lui ha acconsentito. Gli ha risposto Paolo Polacchini, basso e voce dei TIOGS (lo affiancano Giorgio Borgatti, chitarra della band nonché produttore con la sua Upupa; e Federico Alberghini alla batteria).
Eccovi l’intervista:
Quanto conta per voi la coerenza al vostro progetto, la continuità negli anni, l’essere riconoscibili?
P: La coerenza al nostro progetto più che stilistica è soprattutto una questione di intenti. Nel senso che abbiamo (forse a torto) la scarsa modestia di credere che negli anni, stilisticamente parlando, siamo cambiati parecchio. Quindi lo stile, entro i dovuti limiti, può essere intaccabile. Ovvio che non proveremo mai ad essere ciò che non siamo. La coerenza dei Three è il volersi mettere sempre in gioco e tentare di fare un passo avanti tutte le volte che si compone un album nuovo. La coerenza dei Three è di voler curare la scrittura senza dimenticarsi del lato fisico del concerto, provare a rendere entrambe le situazioni efficaci senza snaturare nessuna delle due. La coerenza dei Three è non appoggiarsi mai ad una formula codificata.
La continuità è importante, forse è il nostro più grande pregio. Roma non è stata costruita in un giorno. E nessuno ti regala nulla. Abbiamo sempre saputo che le soddisfazioni vanno guadagnate passo per passo, con un lavoro costante. E’ un approccio un po’ “artigiano” però è genuino, forse funziona. I dischi non cambiano il mondo, non più. Però possono far bene a chi li suona e a chi li ascolta, pezzo per pezzo, giorno dopo giorno, noi ci proviamo. Abbiamo la pazienza di provarci.
L’essere riconoscibili va da sé. Se sai cosa vuoi e come farlo, vuole dire che hai un “modo” tuo. Come dicevo, siamo cambiati nel tempo, non ci siamo stravolti, c’è un filo che unisce tutto quello che abbiamo fatto, che ci rende riconoscibili. Chiamalo “modo”, chiamalo “mano”, facciamo i sofisticati e chiamiamolo “approccio alla materia musicale”. Questo è il tratto che ci contraddistingue, al di là dello stile, che può essere più o meno artificioso. Chi non ha le idee chiare si può permettere il lusso di sembrare sempre diverso, con il rischio di avere anche grossa fortuna, ma con l’handicap di non sapere come mantenerla, alimentarla, giustificarla. Vedi continuità. Vedi coerenza.
Brani come “Upcoming poets” suonano quasi del tutto nuovi nel vostro contesto. Come ci siete arrivati? l’elettronica è una (felice) scelta produttiva o il caso ha la sua parte nella riuscita di questo tipo di brani?
P: Volevamo disturbare l’equilibrio di chitarra/basso/batteria con altri inserti fin da subito, da quando abbiamo cominciato a scrivere il disco. Nuovi suoni, nuovi colori. Se li usi bene poi questi vanno a minare alle fondamenta tutte le certezze e le strutture costituite dei pezzi. Tanto che “Upcoming poets” in realtà è un brano che è nato in maniera non molto diversa da quelli dei precedenti dischi. Loop di chitarra alla base di tutto; una roba abbastanza solita per noi a dire il vero. Però poi ci siamo messi a trattare la chitarra come una tastiera, a limitare il basso al ruolo di accompagnamento di base, inserire campioni che dialogassero con le voci e la batteria. Tutto questo è avvenuto a più riprese, in parte provando con gli strumenti in mano ed in parte componendo direttamente sul computer. “Upcoming poets”, proprio per la sua semplicità, mi sembra il brano che rende l’idea di come siamo cambiati noi per inserire i synth, ma anche come i suoni synth ci abbiano cambiati. E poi Giorgio ad un certo punto ha detto: “l’inizio lo canto io”. Addirittura.
Soprattutto nella dimensione live, finora, i TIOGS danno l’idea di essere controllati, nel senso che sapete come e quando fare uso della vostra potenza e quando ricorrere ad altre suggestioni. Cambierà qualcosa nel tour (iniziato proprio sabato scorso, ndr)?
P: C’era lo slogan dei pneumatici: “la potenza è niente senza controllo”, quella con Ronaldo se non sbaglio. Anche se non smerciamo copertoni e cominciamo ad avere il fisico di Ronaldo (il Ronaldo di oggi, non quello di allora), per noi, fare un buon concerto significa dosare bene tutti gli elementi, potenza e controllo compresi. La dinamica poi è sempre stata una variabile molto importante nei nostri pezzi e nei nostri live. Il bello della composizione è la facoltà di condurre l’ascoltatore attraverso stati d’animo diversi, dosando enfasi, rumori, silenzi. Il concerto è la possibilità di mettere in pratica questo potere evocativo. Non credo proprio che abbandoneremo quest’ottica. D’altro canto in “Pure” queste suggestioni ci sono tutte: complessità, rarefazione, esplosioni, impatto.
In buona sostanza siamo convinti che se suoni cattivo dall’inizio del concerto fino alla fine, tutta questa potenza alla fine non viene nemmeno troppo percepita e l’empatia tua e di chi ascolta svanisce in poco tempo. Altrettanto dicasi per un concerto troppo dolce.
Siete stati in Cina, come Jennifer Gentle e Dorian Gray prima di voi. cosa vi rimane ora di quell’esperienza, che situazione di conoscenza e passione “indipendente” avete trovato, quale l’apertura verso l’estero, insomma sono pronti – per i tanti che sono – a essere invasi dalle musiche occidentali?
P: Guarda, l’esperienza cinese è stata davvero piena di momenti incredibili. Tanto che risulta difficile riassumerla in poche righe senza correre il rischio di diventare prolissi (cosa che, come vedi, mi risulta abbastanza naturale). Non so precisamente che tipo di tour abbiano fatto Jennifer Gentle e Dorian Gray. Noi abbiamo viaggiato in treno, in mezzo alla Cina che si sveglia alle sei del mattino sorbendo ciotole di tagliolini roventi e maleodoranti, che indossa il piumino in casa perché c’è il condizionamento ma non il riscaldamento, che viaggia con enormi borse piene di “cineserie” da vendere a non so quale mercato. La Cina che non parla inglese e che ti guarda come si guardano gli animali allo zoo perché loro, un occidentale di quasi un metro e novanta, non l’hanno mai visto fuori da un televisore. Poi c’era Shanghai, c’erano altre grandi città “western” ed i club, dove i cinesi stanno imparando ad assomigliare un po’ più agli occidentali, ma a modo loro.
I cinesi sono curiosi, è un tratto distintivo di tutti e riguarda tutto: dalla musica alle automobili, dalla città in cui vivi a quanti gradi ti mancano nell’occhio sinistro (era una domanda quasi immancabile, giuro).
I concerti li vivono con grande curiosità e una genuina empatia. Si lasciano molto andare, se suoni carico impazziscono. Da questo punto di vista sono candidi, dei ragazzini al primo giorno di scuola. Fa piacere vederli dal palco, così diversi dai compassati italiani che filosofeggiano accigliati a debita distanza dall’impianto. Abbiamo avuto l’occasione di suonare con alcune band cinesi: qualcosa di decente l’abbiamo anche sentito. Non siamo passati per Beijing dove risiede la vera “scena punk” cinese, potrebbe essere quindi una impressione falsata.
Non so se essere pronti alla musica occidentale sia necessario: vivo in uno Stato dove negli ultimi dieci anni si ascolta sempre meno musica internazionale “perché-non-si-capisce-cosa-cazzo-canta-quello-lì”. Sai, mi risulta un po’ difficile salire in cattedra e magari sperticare un secco “…ne deve passare ancora di acqua sotto i ponti”, mi suonerebbe un poco presuntuoso. La conoscenza della musica moderna (indipendente e non) è vaga rispetto alla nostra; anche se non sono completamente all’asciutto. Ci sono comunque realtà che mettono in risalto la musica del resto del mondo e sono molto seguite: alcuni locali chiaramente orientati ad un’ottica internazionale, webzine (non tantissime) e promoter (rigorosamente DIY). La percentuale di cinesi veramente appassionati ed acculturati in materia è molto ridotta anche se è in forte aumento grazie all’immigrazione di occidentali. Il godimento della musica è un lusso ancora per pochi; la causa non è solamente il filtro di stato alle informazioni, è soprattutto la forbice sociale che impone alla stragrande maggioranza una vita completamente votata al lavoro ed all’inseguimento del denaro. Il “chinese dream” che ha soppiantato l’ormai trito “american dream”. Si apriranno, questo è largamente prevedibile. Ma non lo faranno di certo a modo nostro.
Dopo avervi invitato ad iscrivervi alla pagina Facebook dei Three in one gentleman suit, e ad andarli a vedere appena possibile, ci accodiamo al messaggio che ci ha affidato Paolo, e cioè:
Grazie Enver!