Andrea Girolami suggeriva qualche giorno fa, in maniera provocatoria (ma neanche tanto) di chiudere i negozi di dischi ed argomentava così:
Nel momento della smaterializzazione del supporto e dell’esaltazione del suo contenuto questa estrema volontà di rimanere legati ad un oggetto è quanto di più triviale possibile. […] Perché continuare a vaschettare con piccoli polpastrelli quando tutto è a portata di mano? Perché questo gesto è quello di cui abbiamo bisogno per sentirci appartenenti ad una cerchia ristretta, aggrapparci all’abitudine e al rito nel momento di massima incertezza…
Oggi però mi imbatto in questo articolo e questa considerazione mi resta impressa:
For a DIY artist it takes 4 million Spotify streams to make the same $$ as 143 album sales
È anche vero che il bo$$ della Universal Music Group , sezione digitale, Rob Wells, ha elogiato Spotify, affermando che sono “all additional money” quelli che provengono dal sito. A suffragare la sua tesi c’è anche Ken Parks, un dirigente di Spotify, che, numeri alla mano riporta come Spotify sia cresciuta da zero a 10 milioni di utenti e come di questi 10, 2 milioni siano paganti.
Statistiche alla mano, però, è anche vero che gli utenti che usano il servizio tendono a non comprare più musica, mentre prima lo facevano, anche se saltuariamente. E se questo servizio dovesse rimpiazzare iTunes, ci sarebbe da discutere.
Detto questo, è ovvio che nessuno voglia chiudere Spotify, ma come chiosa l’articolo del Mercury News:
“Fans who listen to an artist on Spotify should take the next step to support them, but it’s not clear what that next step is.”
Cosa ne pensate?