L’abbiamo incontrata poche settimane fa e Maria Antonietta ci ha spiegato cosa significhi questo disco, quanto fosse buia la sua vita quando lo ha scritto e quanto sia meraviglioso il suo ascolto ora, che la crisi è passata. Eccolo finalmente: le 12 tracce di Maria Antonietta usciranno per Piccica dischi il 6 gennaio, anniversario della nascita di Giovanna D’Arco.
Dodici canzoni in appena mezz’ora, una raffica di potenza ed eleganza che miscela il cantautorato al rock più classico, stemperando il tutto con striature beat e un bel po’ di grunge a sporcare la tappezzeria immacolata. Una Caterina Caselli più punk e sfrontata che racconta la sfida (e a volte la sfiga) di avere 20 anni e la costante sensazione di “non avere mai imparato niente”.
Canzoni di una potenza dilaniante, come Maria Maddalena, tutta chitarra acustica ed una sfumatura di archi distorti, messa lì a raccontarci l’autodistruzione dello spingersi oltre i limiti della propria bellezza. Le tastiere e i sonagli di Con gli occhiali da sole mettono un’allegria abbagliante e quasi rendono la rassegnazione una bella sensazione. Canzoni da post sbronza, che urlano nelle tempie ben prima che l’aspirina faccia effetto, quando ci si sente “uno schifo ma non è la prima volta” e si ha la certezza quasi matematica che non sarà nemmeno l’ultima.
L’autentico schiaffo è dato da Santa Caterina, muro di elettricità e voce distorta, con la batteria picchiata ossessivamente ad urlare una solitudine con le spine. A seguire le due pillole, la blu e la rossa, che sincopano il ritmo della playlist con una scelta stilistica sublime. Voce e tamburello, 54 secondi appena, “cosa volevo fare, Giovanna D’Arco, che tanto il mondo ti mette al rogo in ogni caso?”: così Stasera ho da fare lascia il sapore della presa di coscienza, l’amaro di un risveglio tremendo e la sensazione di quiete dopo la tempesta. Tempesta che però torna, travolge tutto e lascia il fiato corto negli appena 29 secondo di Stanca, minaccioso schianto elettrico ad accompagnare una voce degna di una Consoli prima maniera ma spaventosamente esasperata. Poi il disco riprende, altre 3 canzoni, ognuna diversa dall’altra, ad alternare jingle televisivi e ritmi campionati, nessuna uguale, ognuna una storia a sé.
L’indiscussa prova del talento della bella Letizia è però data dalla squisita Questa è la mia festa che apre il disco, in cui la chitarra acustica duetta con una vocina alla Joanna Newsom per svelarci una trasparenza quasi cruda che un’ombra di violoncello sfuma in una deriva sfacciata e punk.
Una produzione attentissima che riesce a non snaturare questa cattiva bambina della canzone giungendo, anzi, a valorizzarla, al punto da renderla irresistibile. Canzoni con il trucco sbaffato e il mal di testa, 12 pagine di diario scarabocchiate furiosamente nel tentativo di spegnerlo, per un attimo, il flusso di una coscienza sanguinante. Un costante senso di inadeguatezza con cui combattere per un disco meravigliosamente femminile, sfaccettato e universale nella sua introversione. Una Donna con la D maiuscola, strappata però ai ’70 più che ai ’90.