“Ho spesso pensato al ridicolo delle nostre situazioni sentimentali e psicologiche. Di più al ridicolo di costruire e abitare queste case e di amare così, su una di queste gigantesche (ma rispetto a che?) palle sospese nello spazio.”
– Michelangelo Antonioni, La ruota
Avevo visto Michelangelo Antonioni regista e ho avuto per lui un piccolo striscio: Blow Up è uno schianto, e in Zabriskie Point volevo esserci io in quella macchina inseguita da un aereo da turismo; alle Amiche però, mi sono voltata verso Pavese e gli ho sorriso. Avevo poi sentito di come fosse un ferrarese avvenente: “Era davvero il più bello dei registi italiani”, e questo l’ha detto Monicelli; ed ero venuta a conoscenza della stramba leggenda che lo voleva così povero da mangiare, per un certo periodo, solo miele. Avevo letto pure che sceglieva le attrici scrutando attentamente la loro nuca – perché solo chi ha una bella nuca, può fare cinema -, avevo apprezzato le sue camicie, soprattutto quelle con piccoli fiori, e certe estrose cinture che accennavano al far west; l’avevo anche sorpreso a indossare dei buffissimi sandali estivi accanto a Monica Vitti, e apprezzato la sua firma con la mano sinistra, sotto una piccola chitarra disegnata.
L’ho scoperto ora scrittore, sfogliando le pagine di una raccolta di sceneggiature mai finite, racconti e pensieri abbozzati. Immagino a fine lettura di passeggiare in quelle sottili strisce pedonali tra le righe, e trovare, tutte su un’unica strada, le figure appena tratteggiate da Michelangelo. Il libro si chiama Quel bowling sul Tevere, ma Roma non è onnipresente. Sulla mia strada c’è soprattutto la sua Ferrara e quella di Bassani, con meno giovani tennisti e più ragazze in bicicletta: ci sono un sacco di fanciulle, nell’inchiostro di Antonioni, fanciulle la cui sola esistenza da piacere, e quasi sempre hanno 24 anni. Le ragazze vanno sui pedali con le gonne al vento, e sembrano belle perché sono allegre, e sono allegre perché vanno all’appuntamento coi loro ragazzi. Quando attraversano la strada scoprono una coppia sul marciapiede di fronte, che si tiene sottobraccio prendendosi sul serio: la loro è una storia d’astratta fedeltà, la cronaca di un amore mai esistito che è durato undici anni. Ci sono tante donne, per la via, una di loro si chiama Grethe, anche se Grethe in realtà non si chiama: è molto bella quando è seria, quando si raccoglie e sembra in compagnia non di chi le sta accanto, ma di un terzo invisibile, il terzo che citando TS Eliot, Antonioni ci suggerisce essere vicino a tutti i suoi personaggi, a beffare ogni logica e matematica. A qualche metro c’è un fioraio, e davanti un signore che indica il vuoto; dietro l’angolo invece c’è una chiesa: sta uscendo a passo veloce una ragazza con un impermeabile sformato; un trentenne che non la conosce la segue fino a casa e le chiede: “Posso vederti domani?” “Domani entro in convento di clausura”, risponde lei. Ad aprire il portone del condominio sono un gruppo d’amici che stanno andando a caccia di coccodrilli. Forse non sanno che lungo la strada, passando sotto i fili del telegrafo, facendo un po’ di silenzio, potranno sentire le storie dei contadini: è questo che succede, i primi giorni di primavera. Quando viene l’inverno, però, è il crimine a prendere il sopravvento: le 220 pagine traboccano d’omicidi efferati e soprattutto impuniti, compiuti in un clima d’armonia. Un uomo spara a due bambini che giocano sotto gli ippocastani, senza essere condannato; una ragazza con un pullover blu da marinaio confessa al tavolo di un bar, a uno sconosciuto, di aver ucciso con dodici coltellate il padre, e d’esser stata assolta, e via dicendo. Episodi più lunghi e indigesti, che fanno correre le dita a scritti più distesi e vaghi, che vanno giù come un bicchier d’acqua fresca. Come quello intitolato Tre giorni, che è il mio preferito e cito qui perché dura dieci righe: “Ricordo il prato verde, la casa rossiccia, il pavimento di mattoni cotti dal sole in mezzo all’erba. Anche la ragazza era piena di sole. Un sole nordico come lei. Non l’avevo mai vista prima, mi sorrideva con molta naturalezza e anch’io le sorridevo ma smisi subito per chiederle se voleva venire a vivere con me. Un profondo stupore le illuminò la faccia. Ma non tanto profondo quanto la domanda a bruciapelo giustificava. Venne poi a vivere con me. Durò tre giorni. E furono tre giorni di profondo stupore.”
– Natalia La Terza