Abbiamo letto di tutto su Lana Del Rey, dovunque, ma mai nessuno si è spinto fino a stilare un elenco delle cose che la nostra lolita di provincia non è in grado di fare: innanzitutto sono convinto che non riesce ad infilarsi un paio di guanti in lattice usa e getta per via delle sue unghie da commessa, così come di certo non potrà indossare dignitosamente un casco, a causa della voluminosa chioma evidentemente ignifuga e quasi sicuramente non è in grado di mantenere una cannuccia stretta tra le labbra, quelle stesse che incarnano il sogno americano, quello di una sciacquetta dalla bocca sottilissima catapultata nel patinato universo delle indie chicks tramite una maestrale iniezione di silicone.
In Lana rivive la favola contemporanea di cui tutti siamo inconsapevolmente schiavi, che ci lascia col fiato sospeso, in attesa di conoscere la sorte di una moderna Marylin Monroe, fragile e vulnerabile nello scontrarsi con la meschinità del mondo, passionale e risoluta nel farsi puledra sul cofano di un auto per il suo cavaliere tatuato e probabilmente non diplomato. Ognuno pare voglia accaparrarsi il diritto di infangare la dolce Lana solo perché non ancora pronta a gestire palcoscenici di valore con la stessa disinvoltura con cui una generosa Christina Aguilera si mostra incurante delle manifestazioni biologiche tipicamente femminili che si riversano sulle sue gambe mentre tributa Etta James al suo funerale.
Ormai è ben nota la partecipazione della nostra bella Miss Dr.90210 al Saturday Night Live in cui con aria naïve e spaesata ha barcollato come in preda ad un cocktail di anti-depressivi e demenza miagolando catastroficamente. Fatale per la sua credibilità d’artista come l’interpretazione di Britney Spears in Crossroads, la performance eseguita l’ha gettata nel ciclone delle critiche assassine che hanno già annientato personalità del calibro di Heidi Montag e Ashley Tisdale. Dal canto suo la cotonata Laneezy si è rinchiusa nella torre dorata di twitter dal cui balcone ha palesato il suo disagio emotivo con un twit che recitava “goodnight cruel world”.
Ciò che non l’aiuta è un passato da shampista che le pesta i talloni, spettro ingombrante di tempi non remoti in cui indossava t-shirts rimediate al wal-mart, ma customizzate con tagli vivi, un talento da lolita noir già ben definito, ma che ancora era soffocato da un’immagine provincialotta. Se la carriera artistica di Lizzy Grant muore quindi trascinando con sé l’odore di detergente intimo che emanava, è la fusione tra il nome dell’attrice Lana Turner e quello dell’auto Ford Del Rey (un po’ come Lady Gaga che si fonde con un Harley Davidson sulla cover del suo ultimo disco) a forgiare la nuova Lana Del Rey, con lo charme di una diva degli anni 50 e la carrozzeria bombata di una Ford.
Una drammaticità di cristallo l’avvolge, vissuta in penombra mentre il vigliacco universo degli haters ascolta il suo LP di debutto, Born To Die, e ne trae spunti per nuove invettive. Genuinamente melodrammatico, il malvoluto lavoro, che avrebbe potuto tranquillamente chiamarsi “Amanda Lear legge Ke$ha” per la quantità di minchiate contenute nei testi, trasuda teatralità da drive-in, attraverso un groviglio di archi tesi, sguinzagliati in un possente climax emotivo che percorre ogni singola traccia, come se Lana avesse interpretato anzitempo gli inni del funerale della propria carriera in vista dei malcontenti attuali. I temi sono quelli rubati dagli spogliatoi delle cheer-leader, maestosamente vacui e stupidi, ma la forza dell’album risiede nelle impetuose produzioni confezionate da Emile, già autore di validi lavori di Kid Cudi, generoso e lascivo quanto mai nel proporzionare le melodie. Gli arrangiamenti sono ingombranti, di un barocco annoiato che nelle esplosioni orchestrali pare sbuffare, privi di calore, ma che al contrario hanno congelato la propria cassa, e nel pietrificarla l’hanno resa accento puntuale di un beat quasi hip hop. Con il trasporto di un Renato Balestra che recita Bertolt Brecht, la modulazione della voce della nostra Laneezy la conduce spesso in punti di secca tra gli archi e le percussioni in cui i versi cullati dalla cantilena si arenano e lasciano che il parlato li avvolga, per poi tornare a rincorrere la marcia musicale rialzando le sorti del cantato. Tutto ha una pretenziosità così sfacciata da essere lodevole: l’abuso senza misura delle atmosfere noir e malinconiche- noncuranti della molteplicità di sentimenti di cui è dotato un umano, prima ancora che ascoltatore, medio- invece che appesantire il tutto, gli dona una personalità ben ferma. Tutto è consapevolmente monotono, pomposo ed arrogante e non gliene frega niente, in un tripudio di fatalismi gangsta e rimandi a filosofie James Dean-iane.
In Lana ritroviamo l’ambiguità di Laura Palmer (su questa considerazione potremmo chiudere il tutto proclamandola donna del decennio) dapprima nell’immagine sfuggente, nonostante il furioso gossip, che abbiamo di lei, mai rivelatrice eppure calamitante e in seguito nelle sue musiche che sembrano far parte dell’ansiogena colonna sonora di Twin Peaks (David Lynch ci ha già querelati prima che finiate di leggere questo periodo). Staremo scambiando della comune pateticità per enigmaticità, ma la nostra impressione è che Lana, nel tentativo maldestro di spogliarsi di un’identità per vestirne un’altra abbia perso qualche contatto con la realtà che era di Elizabeth Grant, finendo con l’essere vittima di frequenti cali di coscienza. Una condizione borderline per cui, Lana, ora è Laura Palmer, ora è Jessica Simpson.
Come in una vera rappresentazione teatrale… ciò avviene sullo sfondo delle melodie opulente e annoiate del suo barocco e seducente album di debutto.
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