– di Enrico Veronese
Ne parlavamo tanto tanti anni fa, di quanto fosse paranoica quella città. E di quanto lo sia ancora, nel mantenere due discoteche accanto a 106 parafarmacie di fascia (o area) C: estetica anestetica, per noi della provincia cronica. Di Pietro avvisava e mezzo salvava gli uomini del pentapartito, di là del mare i fratelli slavi calavano dalle curve e dai palazzetti per dilaniarsi e spezzare un sogno, Andy Moeller prometteva di non mantenere e noi della Sinistra Giovanile di Chioggia facevamo attivismo dividendoci a turno alla guardia della Festa dell’Unità provinciale di Cavàrzere: estate 1992, l’anno dell’Europa unita delle mie delle tue vacanze.
Un giorno là sapevamo che suonava Enrico Ruggeri, che non aveva ancora vinto Sanremo con “Mistero” (“abbiamo già rubato, abbiamo già pagato, ma non sappiamo dire quello che sarebbe stato”), e a guatare il soundcheck del chitarrista Luigi Schiavone con maglia d’Irlanda -ché tutti eravamo irlandesi in quegli anni, anche voi che dite di no- eravamo io, Carlo e Davide dalla succursale, Lorenzo, Alessandro e Dolores dalla sede federale. Prima di cena Lorenzo e la sua fidanzata di allora, forse la stessa di oggi forse no, sostituirono nel mangiacassette il blues di Muddy Waters con il supporto, non originale, su cui scorreva il brano che stava per diventare tormentone inedito della stagione, “Hanno ucciso l’uomo ragno”. Fu la prima volta che presi coscienza del fatto 883, spiegatomi con una tipologia di motociclette, mentre intanto scendeva il tramonto e il grande cantautore ancora crinito e dal caratteristico occhiale snocciolava tutti i suoi hit del periodo (“Il falco e il gabbiano”, “Ti avrò”, “Prima del temporale”) per una folta platea postcomunista. Noi eravamo deputati a fare in modo che la scelta di far pagare diecimila lire il biglietto non fosse vanificata dai giovani portoghesi che si rifugiavano dietro l’argine, a malapena nascosti da qualche tendame. Non nego, vent’anni dopo, di aver tirato loro contro qualche bottiglia di birra vuota per dissuaderli, teppista da stadio che non sono mai stato; ma mi pareva di agire per il meglio, come quando Carlo Davide e io, con Alessandro e gli altri coprivamo nelle rispettive città gli adesivi della Lega che iniziavano a farsi spavaldi per giro. Quella sera i ragazzi di Mestre andarono a dormire in sezione, dove erano stati approntati i materassi: per qualcuno sarà stata la prima esperienza, magari gli spinelli, o le coccole. Noi invece rincasammo la notte stessa, che ci mettevamo meno tempo, e non avremmo dovuto tornare in campagna l’indomani, per uscire invece in immense compagnie, qualcuno in motorino sempre in due. La DeLorean del dottor Brown dice che l’anno dopo i Tretriti scoprirono senza successo che “è vivo l’Uomo Ragno”, e in tempo dodici mesi “Come mai” di Pezzali divenne dominio pubblico grazie all’endorsement dell’ascendente Fiorello, tanto da risuonare per stagioni intere nei walkman dei teenager. Di dure leggi del goal e di regole dell’amico è stato pieno il senno di poi e quindi le fosse. So che il nostro capo di allora si chiama Andrea e oggi sta seduto in Parlamento, come avrebbe scritto Frankie Hi-Nrg in quell’anno fatidico; Alessandro e Lorenzo li ho rivisti su Facebook, Dolores so che scatta fotografie a Venezia, di tal altro più nessuna notizia. Dal canto suo Davide è diventato naturalista e gestisce valli faunistiche, Carlo è da poco padre e suona la chitarra nei ManzOni e io, lo sapete, je parle encore de moi.
Perché, nello stendere un log personale dell’esperienza con il Rolling Stone party per il centesimo numero italiano della rivista, ho anticipato quest’episodio di quell’anno in cui diedi una trionfale maturità davanti a un centinaio di persone che gremivano gli spalti del liceo, incidentalmente col mio stesso cognome? In primo luogo perché troppi sono stati i deja vu che dalla serata milanese mi hanno ricondotto a quel momento (gli 883 e Max Pezzali, Enrico Ruggeri, Cavàrzere nell’incontro casuale con un ottimo amico musicista di quelle parti, magari mille altri frame), in secondo luogo per l’eccezionalità di una rimpatriata collettiva che, vista dal lato del sublime, non sfiora solo presenze e persone -a un certo punto e momento, alcuni dei più influenti blogger musicali nazionali degli anni Duemila erano a non più di due metri di distanza gli uni dagli altri- ma anche le decadi, gli stili, la memoria fluorescente delle generazioni nate dopo le Olimpiadi romane, quelle vere. Del resto, era stato il finissage dell’esposizione di Ozmo, al museo del Novecento in orario aperitivo, a dare l’idea di ciò che sarebbero state le ore a seguire: una geniale giustapposizione di icone pop simboliste, nave Concordia compresa, nei tratti bianchi e neri che si riservano alle pubblicazioni su carta. Una volta nel recinto accogliente della Rotonda della Besana, luogo invero poco sfruttato, i paparazzi avevano il loro daffare a far largo ai flash nel sovraffollarsi a un guardaroba presto esaurito, in colonna verso i bagni sottostanti, in fila modello italiano al free bar ove imperava una edizione speciale della birra artigianale Baladin apposita per Rolling Stone. Il cui logo illuminato di giallo dava il benvenuto nella struttura e dietro il palco, a simbolo dei cento numeri e della controversa classifica sul meglio d’Italia, quella con le “Bollicine” alla sommità e dove però mi è stato fatto ancora notare che manca Baglioni: mea culpa, pro quota parte, avendo contribuito a stenderla. Nel ’96 votai Dini per garantire il quorum alla coalizione, figuriamoci se non avrei salvato il soldato Claudio.
Un ambiente osmotico e anche un po’ asmatico dove Bon Bon La Rouge e io in t-shirt coi nomi dei Blur -che esplosero con “Girls vs. boys” negli anni d’oro del grande Marsiglia, gli anni di Beverly Hills 90210 e di Brandon Walsh- ci immergiamo tra addetti ai lavori (“ma tutti i giornalisti non sono a Sanremo?”), musicisti indipendenti fuori servizio, modaioli di professione, regine del Celebrità e cani sciolti che racconteranno ai nipotini di aver atteso l’esibizione “so ruock” di Jim Jones Revue accanto a Nichi Vendola -sì lui- che posava per gli scatti dei sostenitori, paradigma di un centroprogressismo dove altri segretari frequentano l’Ariston e proprio Vasco Rossi, perdendo primarie e contatti in prima persona con la rappresentanze delle istanze più avanzate e fresche. In attesa di sapere se il presidente-rocker della Regione Puglia -il cui peana è stato intonato da Erica Mou alla kermesse dei fiori- sarà in una delle prossime copertine del mensile diretto da Michele Lupi, lo scarmigliato Dente sale sul palco da solo, come raramente càpita di vedere, intonando l’inno all’appuntato Mazzolino che fa ondeggiare la parte più tenera della platea, prima di venire raggiunto proprio da quell’Enrico Ruggeri di cui sopra, scheggia del ’92 nella sua “Pernod” recentemente rieditata in coppia a pro di una compilation celebrativa. Il cantautore milanese ex Decibel ex Champagne Molotov, punk prima di te, è alla Rotonda anche per presentare “Tenax”, ovvero il singolo sfasciapiste che agli albori degli Eighties regalò alla gellatissima meteora Diana Est e che dopo essere stato cult per tutto questo tempo ora torna nelle mani di chi lo scrisse, accompagnato dal ficcante e poderoso synthpop dei Serpenti. Chi la conosce la canta, gli altri si muovono a tempo e non par vero, la soffiata giunta via messaggio privato su twitter nel pomeriggio stava raggiungendo il suo apice: sed modo senectus, morbus Diana Est, val la pena vivere solo dalle undici.
A voler unire puntini enigmistici, mentre ulteriore birra veniva scolata e nuovi incroci di persone celebrati, “Tenax” rappresenta la prima di tre stazioni orgiastiche verso la gloria intatta: la seconda è demandata alla verve di una Nada (Malanima) che ha venduto la propria anima al diavolo in cambio dell’eterna giovinezza e fragranza espressiva, dispiegate come meglio non si potrebbe nella storica hit “Amore disperato”, che continua a far sognare le ragazze del Sassofono Blu tra le stelle accese e i ragazzi gentili. Il pulcino livornese sembra un angelo caduto dal cielo, madre com’è eppure rockeuse, spalleggiata con grinta dai pisani(!) Criminal Jokers, sensazione della scorsa stagione musicale e in procinto di rientrare alla discografia con sostanziose novità al loro arco. Il singalong è ancora più nostalgico di poco prima, coi videoartisti, i giovani scrittori, i new fumettisti, i mecenati di sinistra, i creativi, gli assistenti universitari, i produttori, gli importatori, i consumatori senza ritegno a bandire ogni snobismo come davanti a quella pellicola con Jerry Calà. E s’alza un vento, un vento freddo (il grande freddo?): qualcosa dice che nel climax ascendente il top debba ancora succedere, per quanto ogni momento delle due esibizioni “goldies” sia già da cristallizzare in una nicchia sulle pareti.
Alberi infiniti per i bisogni della folta troupe dei Cani, che fende l’aria compressa nel perimetro circolare, forse per paura che i Serpenti li mordessero alle caviglie (ah ah ah) in un inside joke da confraternita goliardica dei college USA, sparpagliandosi e richiamandosi all’ordine prima di salire sul palco. Sono in tanti da Roma, come e più che dalle altre regioni, a fare del convivio un appuntamento senza confini manco teorici; on stage, il caso musicale del 2011 brandisce le proprie armi, tastiere suonate veloci come fossero chitarre e il piglio nerdish di Niccolò che ci crede quando canta le “Velleità” dei nati nel ’94, ovvero quei “Pariolini” di diciott’anni che nel Novantadue ancora non c’erano. L’anagrafe sta cercando di dirmi qualcosa, ma non le presto attenzione o più prosaicamente non lo accetto, esorcizzo l’ineluttabile: da tempo si sa che I Cani portano in scena una cover quanto mai azzeccata di “Con un deca” degli 883, scoperta giusto quel lontano giorno di impegno tardoadolescenziale, per quanto lontana dai cànoni necessitati alla formazione di un giovane pidiessino d’un temps, inclusivi di cantautorato e vintage prog-ruock. Un deca che tra l’altro non bastava a Mario Chiesa per andare in pizzeria, per questo fu arrestato quel 17 febbraio… La sentenza: non poteva che essere Max Pezzali, di sotto una coppola compagna della mia, ad avvicinarsi al microfono quale emozionato frontman di una band che del suo non nasconde l’affettuosa ammirazione verso l’eredità concettuale dello storyteller for the masses. Guardali là quei Cani che ululano: in questo momento avviene una sospensione del tempo, dei criteri e della volontà determinata, “Con un deca” come una livella non decurtisiana ha lo stesso effetto della fog machine in discoteca quando ero pr (in quale anno, al lettore indovinarlo a questo punto), vale per tutti e crea un mondo a sé dove l’atmosfera è autoregolata al modo di una zona temporaneamente autonoma. E’ l’apoteosi, il clash delle epoche voluto dagli organizzatori, la beatitudine in quattro minuti che ristabilisce una proporzione siderale con il balzano “culto” postumo di taluni per Mauro Repetto e lascia sulla risacca il gusto del sale; meno male che non signoreggiano i Soliti Idioti, e sono invece i deejay grandi firme a spostare i cursori sulle massive epifanie rock che ci si aspetta in casi del genere, con i Cure che dalle casse portano il buonumore vicino al camerino dove Max risponde alle curiosità pavesi sul Jolly Blue e altri racconti. Le notti non finiscono all’alba nella via: si sfolla ben prima verso i navigli per un sobrio afterparty, le vetrine reclamizzano i brunch della domenica, i residence coi portieri e i tabbozzi dalle grandi cuffie colorate: e ci troviamo ancora al punto che si gira in macchina il mattino alle tre, non è più sera, non è ancora mattina.
Thank you Rolling Stone, thank you Fabio De Luca, thank you India, thank you disillusionment: facciamo in modo che la prossima volta non sia al giorno del giudizio universa(ti)le.
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