Con ogni probabilità questo è l’ultimo disco che ascolto con le fracassate Samson CH70, ormai stanno tirando le cuoia (e i dischi suonano tutti lo-fi, ma in fin dei conti è bello così). Oggi mi fanno visita —dritti dentro la mia testa— i Giardini di Mirò e l’occasione è troppo speciale per un commiato dalla musica. Attacco le cuffie e presto attenzione. Il giorno 23 marzo l’atteso Good Luck, in uscita per Santeria, sarà finalmente cosa di tutti.
A tre anni dal loro ultimo lavoro, l’acutissima e multiforme colonna sonora Il Fuoco, la band reggiana rientra sul proscenio italiano togliendo dal forno un album suggestivo: cupo e romantico, alle volte struggente, talvolta raggiante. Ma gli aggettivi in questo mestiere sono astrazioni che servono solo a complicare la vita; parliamo di musica. L’affascinante itinerario sonoro dei Giardini di Mirò è un autentico puzzle poetico che spazia dall’indie-folk dell’ouverture Memories, l’epigrafe a ricordo dei bei tempi, con la sua bellissima chitarra che a rilento svanisce; passando per la popular Ride, col rettilineo coro a due voci basso-batteria; spiegando le ali con There is a place edulcorata dal canto femminile e dal rullante lieve. La confidenziale ballad Rome è un crescendo di batticuore sonoro (il cambio di tempo finale è squisito). Le sonorità Broken Social Scene di Time on time mi mandano in solluchero, prima del sipario Flat heart society, cadenzata con i clap, alla Tonight di mister Lanegan.
L’apogeo di tanto romanticismo: You said heart has many rooms, so please furnish one for me.
Buona fortuna.