Esce oggi il nuovo album degli Hot Chip – In Our Heads – per la Domino Records, ad oltre due anni di distanza da quel One Life Stand che ha diviso le opinioni della (pseudo) critica sul destino e le abilità della prolifica band inglese, ora al loro quinto disco.
Sono undici canzoni che spaccano il lavoro complessivo in due parti quasi esatte, se non fosse che 11 è un numero dispari: ci sono da un lato dei pezzi di pregevole fattura come Motion Sickness, con un intro bellissima che sembra riprendere le armonie orchestrali di certe tracce dei Beirut per risputarle in chiave elettronica, ripetitiva, piacevole, ti arriva nei timpani come da un tempo lasciato sospeso. O come Don’t Deny Your Heart, che si distingue subito per l’ispirazione smaccatamente anni ’80 nella parte strumentale, sintetica e incalzante. Flutes è invece il brano che ha anticipato l’uscita dell’album insieme a Night and Day (che nulla ha a che fare col pezzo di Kid Cudi, pure se a un certo punto ho cominciato a sperare in una botta di vita in stile Crookers dei peggio/meglio tempi). Entrambi i pezzi mostrano la stoffa elettronica e danzereccia dei cinque (che nel frattempo hanno quasi tutti portato avanti progetti in parallelo come dj): il primo con chiare virazioni deep, ipnotico, travolgente, in cui la voce di Alexis Taylor emerge con tutta la delicatezza del suo essere sottile e posata; il secondo dando una sferzata di velocità al tempo complessivamente slow e mieloso del disco. Ci sono poi quei brani di cui ti chiedi semplicemente perché: Now There Is Nothing è una ballata in stile Il tempo delle mele (Hoping to open your father’s heart, okkei) con tenerezza à go go, Look At Where We Are sembra un pezzo delle bonanime delle TLC all’era di No Scrubs rallentato di un paio di tempi e privato della parte R’n’B.
Si passa prima di finire l’ascolto per Always Been Your Love, dove le chitarre si fanno dolci e le armonie romantiche, e per Let Me Be Him, che già dal titolo non lascia presagire un così grande desiderio di distinzione: ha un’ottima base indietronica e un’introduzione invitante, ma si sviluppa poi come un surrogato degli ultimi anni ’90, troppi echi sul finale, ma roba che sono finita a pensare sulla scorta dell’emozione ai Lighthouse Family-e-non-chiedetemi-perché. Rimane fuori These Chains, il brano che fa pendere tutto il lavoro da un lato o dall’altro del burrone. Noi ci asteniamo dal commentarlo cosicché quando l’avrete ascoltato, potrete decretare la vostra personalissima e indiscutibile opinione sull’intero fatto in essere. Chiaramente, il numero dispari era calcolato per non lasciarvi ignavi.