Innanzitutto perdonatemi per il maiuscolo totale del titolo e perché inizio un post con ”innanzitutto”. I tipi in questione devono aver dimenticato il caps lock attivo quando sono andati a battezzarsi e ora toccherà a tutti noi nominarli come se stessimo urlando in mezzo a una radura. I POP ETC sono una finta novità: finta nel senso che esistevano già da prima, ma avevano un altro nome, The Morning Benders, sicuramente noto alle orecchie di molti per il bell’album del 2010 Big Echo. Ce l’avete presente? Ricordate la bellissima—e il superlativo non è buttato a caso come tette qualsiasi su Novella 2000, è meritato davvero—Excuses? O le chitarre-che-più-indie-non-si-può alla The Kooks di Cold War? Bravi, dimenticate tutto.
Ad oggi il quartetto non è più un quartetto (uno se n’è andato, amichevolmente dicono), hanno cambiato nome perché avendo mire espansionistiche oltreoceano (vengono da San Francisco con amore) si sono accorti che nello slang anglosassone benders è utilizzato in maniera offensiva verso gli omosessuali (e io che speravo gli avesse fatto causa Matt Groening a causa della somiglianza col nome del mio robotino ubriacone preferito) e ha sfornato un nuovo album omonimo per l’etichetta Rough Trade: le sonorità sono completamente rinnovate, passando da un pop rock accompagnato da testi da cameretta quanto ai contenuti ma di un certo tenore espressivo, a un synth pop felice e stucchevole. I coretti surf e le incursioni nel folk innervate sulle armonie del vecchio lavoro sono diventate voci sintetizzate di strofe ammiccanti. Notevole la base ricca di sfumature di New Life, incalzante il groove funky di Live It Up, mentre consiglio l’ascolto di Halfway to Heaven, uno dei brani che ha anticipato l’uscita del disco un paio di mesi fa, per capire davvero il senso del cambiamento del trio americano.
Bocciate senza possibilità di ripensamento C-O-M-M-U-N-I-C-A-T-E e Back To Your Heart, adolescenziali, banali, così odiosamente pop che Britney Spears a confronto è Chopin. Whyd You Do It Money, gentile e trasognante, e I Wanna Be Your Man, più rock e decisa, concedono il beneficio del giudizio soggettivo all’ascoltatore, che può rimanere del tutto indifferente di fronte quest’album o pensare che è stata posata la prima pietra per la nascita di una nuova entusiasmante synth-pop band fatta di giovani dal visino carino e le camicie accollate.
Io preferisco ricordarli quand’erano in quattro e suonavano sul palco del Neapolis Festival del 2010 con l’aria da ragazzotti usciti di casa senza troppe pretese, dritti dritti da quella costa ovest culla della beat generation e dei migliori videoclip surf rock in automobili scoperchiate dal vento. Ma purtroppo, signori miei, oggi come oggi un synth tira più di un carro di buoi e lascio a voi giudicarne il risultato. Anche perché tra un po’ inizia la partita dell’Italia e le recensioni non se le legge più nessuno. Au revoir.