Ancora prima dell’arrivo all’Ippodromo delle Capannelle, location che per tutta estate ospiterà il Rock in Roma (ci hanno suonato e ci suoneranno un po’ tutti, Beach Boys compresi, ARGH), mi ero ripromesso di fare un report come si deve, con tracklist, belle foto, giudizi oggettivi. Così non sarà: nel momento in cui la croce ed i Marshall si sono illuminati sulle note di Genesis, ho deciso che il live me lo sarei goduto senza taccuini o orecchio troppo critico.
Questo è ciò che è successo, a più di 600 km di casa, ad uno dei live più emozionanti a cui sia stato—eccetto quello dei Metallica, true story. Non mi soffermerò a descrivere gli opening act: dico solo che alle 8 di sera le casse vomitavamo della inopportunissima dubstep, cosa che avrei decisamente evitato di ascoltare, perlomeno in apertura ai Giustizia. La situazione clubbing sta evidentemente sfuggendo di mano, fossi stato Xavier, Gaspard o anche solo me stesso con un pass, avrei staccato la spina ai dubboni Young Mush, chiunque siano. Ne approfittiamo per procacciarci del cibo molto caro, e sfruttare il graditissimo free drink Averna regalatoci all’ingresso.
A Ippodromo ancora stranamente vuotino, ma molto gasato, è il turno del secondo dj spalla, tale Dj Pone, connazionale dei Justice. Si comincia a ragionare: iniziamo ad accenderci e a lasciarci alle spalle gli snobismi, Pone tocca ogni genere ballabile conosciuto con una facilità e una scioltezza che quasi mi hanno infastidito. I 3 quarti d’ora di set galoppano, moltissimi ballano, si iniziano a intrasentire i primi effluvi di ascelle viscide e weeda, facciamo spedizione cessi “così non dobbiamo andarci dopo” e le 22.00 scoccano inesorabili: viene scoperto il leggendario muro di Marshall con la croce al centro, e parte il primo vero boato della serata, che i roadie sul palco si acchiappano gongolanti tutto intero.
Iniziano le prime schitarrate prog-rock, al buio totale: lo show è iniziato, e a me non par vero. Il live, a mio parere, è una forza della natura. Ok, è tutto preparatissimo e loro sono lì a fare finta e bla bla bla, ma sticazzi: aver mashato il primo album con il secondo riesce a fare impallidire A Cross The Universe, sembra di essere a un dj set dei Daft Punk ft. Premiata Forneria Marconi.
Indiscusso magic moment è stato quando nel silenzio è partita la parte vocale di – ovviamente – D.A.N.C.E. accompagnata da Gaspard al pianoforte, magicamente apparso tra la croce e gli ampli. Nemmeno il tempo di abbracciarsi e sventolare gli accendini che il piano luminoso scompare e la D.A.N.C.E. acustica si trasforma nel suo tamarrissimo remix degli stessi Justice, in un tripudio di effetti luminosi che nemmeno Piccadilly Circus, cori, pogo e smartphone illuminati. Shit just got real, insomma.
Le fusioni tra rock nudo e crudo e french touch si fanno sempre più chiare, il duo è riuscito ad accontentare sia chi ha apprezzato il secondo album (pochi a quanto pare, viste le critiche che ha avuto), sia chi è rimasto legato al primo (io fra questi, Cross è stato il mio battesimo del fuoco all’electro), si balla come matti e si rockeggia ancora di più, non ci sono mai pause più lunghe di 30 secondi, e se ci sono è solo per preparasi a qualcosa di ancora più violento e movimentato (Stress e New Lands hanno trasformato l’Ippodromo in Woodstock, nè più nè meno).
Come nei live del primo tour, viene riproposta We Are Your Friends in circa 18 versioni diverse (quella acappella, quella lenta, quella veloce, quella con piano…), e molte delle versioni dei pezzi vecchi sono prese paro paro dai vecchi live, effetti compresi: la cosa potrebbe far storcere il naso a parecchi precisini – “fate almeno lo sforzo di cambiarle ste basi, o i mash up” – ma non a me, sono troppo di parte, A Cross The Universe me lo sono consumato e sentirmi a volumi esagerati proprio quei pezzi che hanno segnato l’inizio della mia passione per questo genere mi riempie il cuore di gioia. Inoltre, nulla suona vecchio, è un tipo di live che anche tra 15 anni suonerà bene e farà ballare (e visto l’andazzo, probabilmente tra 15 anni non sarà molto diverso da questo, vista la somiglianza con quello precendente, if you know what I mean).
Dopo una pausa in cui gli sprovveduti stavano per andarsene, il live riprende, e i Justice lanciano le ultime bombe: NY Excuse e Phantom, che ci danno la mazzata finale e ci riducono le scarpe una schifezza, manco fossimo in guerra. I Marshall e il tendone di led si trasformano in una notte stellata, e dopo l’ultima, epica, lentissima ballata (non ricordo che pezzo fosse), tutto si accende, i francesi salutano sventolando una bandiera francese, si abbracciano e se ne escono, tra cori (infaticabili tamarri), applausi e il mio religioso silenzio, che sa di stupore e rispetto.
Scappiamo dall’Ippodromo, pacchiamo l’aftershow di Dj Zedd e cerchiamo un modo per tornare a Trastevere, dove sta la nostra provvisoria sistemazione. Seguiamo le carovane di fans come zombie alle fermate degli autobus, becchiamo gli unici due autoctoni nel mucchio di turisti e ci facciamo aiutare a tornare. In un’ora di viaggio facciamo amicizia con mezzo autobus e, stanchi e sporchi, canticchiando Civilization ce ne andiamo a nanna galvanizzati.
La sera dopo ci aspetta un altro live che ha segnato i miei gusti musicali, quello di Cristina D’Avena. Se volete vi faccio il report pure di quello.