unòrsominòre., al secolo Emiliano Merlin, è un cantautore veronese (trapiantato da qualche anno a Padova) di cui da queste parti ci eravamo invaghiti già ai tempi della pubblicazione del suo ultimo album, La vita agra. Disco uscito a fine 2011 per Lavorare stanca e prodotto da Fabio De Min dei Non voglio che Clara, e che in effetti è il secondo Lp della sua carriera solista, dopo quello – senza titolo – uscito per I dischi del minollo nel 2009, così come per Iddm era uscito nel 2010 l’Ep “Tre canzoni per la Repubblica italiana”, con rivisitazioni di brani di Battiato, Gaber e De André.
De La vita agra si è parlato per qualche settimana, da parte della critica (vedi qui, qui o qui), in toni piuttosto entusiastici. Eppure ci è voluta la pubblicazione di un brano dal titolo “pezzali” (quasi 6mila visualizzazioni in 2 settimane) per farlo conoscere ad un pubblico vasto ed eterogeneo. Abbiamo deciso di parlarne con lui, per cercare di raccontare questo musicista e autore anche a quelli che gli si sono avvicinati in maniera strumentale o distratta, senza cogliere il reale valore dell’artista ma fermandosi al tifo pro o contro, come spesso succede in questi casi. E abbiamo cercato di spiegare anche quale fosse il vero obiettivo di quella canzone.
1) Ciao Emiliano! inizierei dal principio: unòrsominòre. (con gli accenti e il punto) nasce nel 2005, ma tu già da qualche anno eri in giro con i Lecrevisse (di cui eri voce e chitarra, e che nel 2003 pubblicarono un bel disco per la Jestrai, “Due.”). Cosa hai portato delle esperienze precedenti in questa avventura solista, cosa invece hai deciso di mettere da parte e soprattutto: perché questo nome (e gli accenti e il punto)?
Accenti, punto, e iniziale minuscola :) Per il nome, come ho spiegato ormai tante volte, ho giocato con le parole unendo la mia passione (anche lavorativa) per l’astrofisica, certe mie pieghe caratteriali e inclinazioni musicali, e la voglia di far faticare addetti ai lavori e appassionati, costringendovi a prestare attenzione ai dettagli – cosa che però raramente riesco ad ottenere. Intorno alle dinamiche di gruppo, credo non ci sia molto di non scontato da dire: l’esperienza in una band lascia sempre un’impronta molto forte, è il sogno di gioventù che ti resta dentro, e io lo sento ancora molto vivo soprattutto quando salgo sul palco, dove ho un approccio molto più “rock” che da cantautore; il lavoro come solista, naturalmente, mi concede invece più libertà creativa, e al tempo stesso mi responsabilizza molto di più – cosa che comunque mi piace.
2) Lo scorso anno la critica ha speso bellissime parole per il tuo secondo LP solista, “La vita agra” (prodotto da Fabio De Min dei Non voglio che Clara). Un disco che personalmente trovo splendido per le cose che dici nelle canzoni, per come le hai messe in musica e per la capacità di arrivare al punto del discorso in 3/4 minuti. Cos’è che viene prima nella tua testa, la musica o le parole? sono due veicoli che si mettono a disposizione di un unico messaggio, o c’è un aspetto che più volentieri “pieghi” alle esigenze dell’altro?
Per “La vita agra” ho ribaltato il processo compositivo che avevo sempre usato nei miei lavori precedenti, e ho dato assoluta priorità alle parole, a volte piegando, quasi torturando la musica per cucirla attorno alle liriche. E’ stata un’esperienza nuova e faticosa ma che credo ripeterò perché non penso che sarei più capace di accontentarmi di parole sfocate o significati vaghi ad ornamento di musiche anche bellissime, articolate, evocative. Se non ho qualcosa da dire, preferisco non scrivere niente. Credo dovrebbero farlo tutti. Mi si può obbiettare che si può esprimere tanto anche senza usare le parole: vero, ma è cosa per pochissimi. Come, d’altra parte, usare bene le parole per esprimere concetti per mezzo di esse.
3) A proposito de La vita agra. Riprende il titolo di un romanzo di Luciano Bianciardi, del 1962, il cui protagonista vive l’amarezza del non riuscire a sabotare la società in cui vive e che vorrebbe poter trasformare (anche con la violenza). Sono passati esattamente 50 anni, senza volermi lanciare in arditi parallelismi storici (anche perché sarebbe un discorso lunghissimo), mi chiedevo se secondo te fosse quella la chiave per comprendere le tue canzoni: il bisogno di tirarsi fuori dal mondo, a fronte della consapevolezza dell’incapacità di essere parte attiva di un’alternativa reale per cui combattere. E’ questo il contesto in cui sono nate quelle canzoni? Penso in particolare a Storia dell’uomo che volò nello spazio dal suo appartamento…
… o a La vita agra II, o a Celluloide. Sì, uno degli ingredienti fondamentali delle liriche del disco è la disillusione amara di fronte all’impossibilità di incidere realmente sul mondo e sulla società in cui viviamo, e l’essere costretti a subire lo status quo diventando parte dell’ingranaggio, conniventi al perpetuo perpetrarsi degli orrori quotidiani senza nemmeno accorgersene, e spesso anzi credendo di remare contro. Così che l’unico gesto realmente antagonista, oggi, diventa quello di sottrarsi in prima persona alle logiche del consumo e dell’assenso silenzioso, del passare al setaccio le proprie abitudini senza assolversi a priori e considerando quali di esse siano nocive, marce, superficiali, complici, financo fascistoidi magari senza dare l’impressione di esserlo.
4) Negli ultimi giorni ho assistito piuttosto sbigottito alle molte reazioni scomposte suscitate da un tuo nuovo brano, “Pezzali” (inserito nella compilation con cui Fosbury Records festeggia i 10 anni di attività). Basta ascoltarla per capire che, al di là del titolo e di un giudizio netto (che resta un giudizio personale di unòrsominòre. – non che me ne voglia discostare, anzi!), non si parla di Max Pezzali ma di cose un po’ più importanti e che riguardano tutti noi. Probabilmente te le aspettavi, forse addirittura le hai provocate volutamente. Diccelo tu. Vorrei anche sapere se ti sia dato una risposta sul perché non si riesca ad andare oltre il “tifo”, anche quando si fanno dei nomi solo a titolo di esempio.
So che suonerà ipocrita ma sinceramente non mi aspettavo niente del genere, non credevo che l’eco di un brano pubblicato in sordina senza battage mediatico di sorta sarebbe potuta arrivare ai fans di un artista così popolare. Ah, potenza dei tag! :) Poi che il fan di un artista mainstream sia poco diverso dal tifoso del pallone, ad esempio, e come lui venga spesso accecato dalla rabbia quando sente tirato in ballo il proprio eroe, non è certo una novità; è una conseguenza naturale del trasformare arte e cultura in prodotti di consumo e di massa. Peraltro qualche commento è stato anche interessante, e ha colpito nel segno, anche se magari non cogliendo un sarcasmo implicito nell’intitolare un brano “pezzali” (minuscolo, nelle mie intenzioni, proprio a segnalare che non è la persona fisica a interessarmi) e poi cantare contro “i titoli furbetti delle canzoni ammiccanti da cantare in coro tutti quanti” :) In ogni caso, come dici giustamente, i miei bersagli non erano né i fans né il loro idolo, bensì il sottobosco autorefenziale “indie”, e il suo pressapochismo, e la sua superficialità; la canzone tratta tutta una serie di deficienze dell’odierna gioventù “antagonista”. il riferimento metonimico al “simbolo” Pezzali è dovuto, a seguito della pubblicazione da parte di una famosa e influente webzine indipendente (o sedicente tale) di una raccolta celebrativa per la carriera di un “gruppo” che di indipendente e di artisticamente valido non ha mai avuto molto (e questo, si noti, nel testo è dato per scontato, come ipotesi, cosa acclarata per chiunque abbia un briciolo di cultura musicale che esuli dal palinsesto radiofonico più becero; e il punto su cui si discute è che nonostante tentativi più o meno velati di rivalutazione in nome del “divertimento”, il giudizio sull’operato artistico del Nostro non può cambiare).
5) Vorrei anche provare a parlare con te del vero significato della canzone. Io credo davvero che questo pezzo possa diventare una specie di inno (anti)generazionale, un punto di partenza per tanti. Mi sembra pure che in questo momento storico la nostra società spinga all’individualismo, alla ricerca della notorietà come unica possibilità di fuga dal precariato culturale e affettivo in cui costringe la stragrande maggioranza di noi. Vorrei tornare a La vita agra, e sfruttare anche il tuo amore per il cantautorato degli anni ’70 (e il contesto in cui si muoveva); al di là del non collaborazionismo (in tutto e per tutto passivo), tu vedi una qualche altra possibile forma di ribellione? non dico una speranza di far rivivere e dare un nuovo senso alle masse, come corpo unico e forte, compatto nel perseguire obiettivi politici, ma quanto meno di costruire uno spazio di socialità diversa, dove si smetta di parlare ognuno di sé e si cerchino terreni comuni, terreni per un “noi” e un racconto comune di quello che vorremmo essere (e vorremmo fosse il nostro Paese)…
Anzitutto non sono certo che il non collaborazionismo sia “in tutto e per tutto passivo”; è, anzi, l’unica forma di attivismo attualmente sensata, nel momento in cui riesca a colpire gli interessi economici di qualche potentato. Smettere di considerare la “crescita” come l’unica possibile via per uscire da una crisi che in realtà è endemica ad un sistema socioeconomico che ha dimostrato nei fatti di essere fallimentare, e iniziare a ragionare in termini di sostenibilità, decrescita, senza consumare selvaggiamente, è qualcosa che ciascuno di noi può fare in prima persona a partire da subito. A parte tutto questo, credo che l’unica forma di ribellione seria oggi possa partire dal rimettere in moto i neuroni e impegnarsi a pensare, a studiare, a capire, a non rifuggire dall’impegno santificando la distrazione e il divertimento come salvifiche fughe dalla società, e a non limitarsi sempre a ciò che è “facile”, che sia il corso di laurea in scienze della comunicazione o l’analisi politica del TG1. Imparare a capire quello che ci circonda, non accontentarsi di analisi superficiali, cercare collegamenti fra fatti, anche oltre il ragionamento preconfezionato che ci viene propinato dai mezzi di informazione a loro volta in mano a chi comanda, appassionarsi alla scienza, alla logica, alla razionalità senza cadere nel tranello relativista di chi vorrebbe fare di tutte le posizioni salde lo stesso fascio assolutista; una nuova epoca dei lumi, di questo abbiamo bisogno in questi tempi disperati.
6) capisco perfettamente il discorso sul non collaborazionismo, in questi termini. Quello che mi è meno chiaro è la responsabilizzazione del singolo, già disilluso e privato anche soltanto della speranza di andare oltre la valutazione dei comportamenti propri e la costruzione di un proprio sapere, e alla fine addirittura responsabilizzato al punto di credere che sia capace di farsi una cultura senza alcuna struttura di riferimento. Ti confesso che personalmente sono un po’ nostalgico, credo nell’importanza di riconoscere autorevolezza a chi si dimostri competente, o capace di provocare in maniera intelligente e far riflettere. Credo nell’insegnamento e negli agitatori culturali. Penso al discorso che fai sui fan di Pezzali e la mercificazione delle persone. Possiamo farlo a proposito della musica, possiamo allargarci ad altri settori della società civile: in un momento come questo, ci sarebbe spazio e attenzione per personalità non legittimate dalla massa, come quelle di un pasolini o un leonardo sciascia? non so se hai letto la storia di Open, autobiografia di Agassi entrata in classifica un anno e mezzo dopo la pubblicazione (e ben più tardi della pubblicazione di ottime recensioni di esperti), soltanto perché “sponsorizzata” via twitter da una serie di personaggi famosi (che nulla c’entrano con la letteratura, ovviamente)…dove si va a finire per questa strada?
Sono nostalgico quanto te, circa quello di cui mi parli. Gli intellettuali autonomi e perciò scomodi naturalmente ci sono anche ora, e forse la loro fruizione è paradossalmente più alla portata di quanto lo fosse quella di un Pasolini negli anni ’60, con la rete e la possibilità di reperire fonti con sforzo contenuto, da tutto il mondo (anche se allora Pasolini poteva girare film a Cinecittà, per esempio). Nei più disparati ambiti e senza addentrarsi troppo nell’underground, mi vengono in mente Serge Latouche, Piergiorgio Odifreddi, Piero Ricca, Christopher Hitchens, Peter Singer… La rete però ha in sé la contraddizione insolvibile di mettere a disposizione troppo, annacquando in un mare di mediocrità le proposte culturalmente interessanti e valide (che siano nel campo del pensiero, della musica, o del campo che preferisci; io l’ho vissuto sulla pelle anche nell’ambito delle pubblicazioni scientifiche, per esempio). In questo forse un ruolo da “selettore naturale” può averlo il social network, che consentendo la conoscenza e il legame fra persone magari fisicamente distanti ma unite da un comune sentire e da buone capacità intellettuali, può aiutare in qualche modo a “scremare” – sempre a scapito dell’autonomia di indagine, però. Tutto questo naturalmente resta relegato a fruizioni piuttosto elitarie, mentre come suggerisci tu con il caso Agassi la massa resta legata a fonti di informazione facile, leggera, banale, uniformata, conformata, rassicurante e distraente. Il che, oltre a far sì che la massa resti culturalmente impreparata, ha anche il fastidioso effetto collaterale di rendere la vita molto difficile a chi cerca di campare del proprio lavoro senza scendere a compromessi, nel significante e/o nel significato. Anche qui, puoi applicare questo discorso ai più diversi ambiti: politica, sociologia, economia, musica indie… :)
7) Per chiudere: ci vuoi dare qualche appuntamento per i tuoi prossimi concerti? sarai in giro in piccoli club della provincia?
Pagina Facebook di unòrsominòre.