DI
@Beeeatrice
Premetto che non ho letto altre recensioni, sono certa un sacco di gente abbia già detto tutto, meglio di me, e più di me. Quindi che ci faccio qui? Diciamo che mi aggiungo al coro, esprimendo un’opinione non richiesta, per altro.
Come avete sapientemente dedotto dal titolo, vi parlo dell’ultima fatica dei Mumford and Sons, Babel, uscito il 21 settembre. Sigh No More, il loro precedente lavoro in studio ed album di debutto risalente al 2009, dopo un inizio un po’ in sordina, ha finito per incantare mezzo mondo stabilendo record detenuti da grupponi come i Colplay, per fare un nome. Non siamo qui per fare paragoni, tuttavia.
Attesissimo da fan e detrattori (questi ultimi speranzosi si rivelasse un’opera mediocre), questo Babel è una storia epica, che si apre come il proprio precedessore con la title-track, festosa e tirata, nello stile caciarone made in Mumford, dall’aroma statunitense, è una band che dalle prime note sa già il fatto proprio senza timide partenze, quasi dicendo “dov’eravamo rimasti?”, “vi siete divertiti ai nostri live?”.Whispers in the Dark, dalle cavalcate cassa-tamburello ed il banjo ad ondeggiare ad ogni nota, un banjo abilmente stuzzicato ancora di più nel primo singolo estratto da Babel, I Will Wait, noto precedentemente col titolo Nothing Is Written, ora in una veste più ricca ma che ha perso il suo gusto etereo e romantico. La parte centrale del disco prosegue tra autocitazionismo (Marcus, stellina, non ti sembra un po’ troppo ripetere “like a stone” in due canzoni diverse nel giro di tre minuti?), citazionismo vero e proprio, nel riprendere con Ghosts That We Knew il titolo di un brano di Laura Marling (Ghosts), ex ragazza del frontman.
Secondo brano già conosciuto da parecchio, Lover Of The Light, eseguito regolarmente live da due anni e mezzo a questa parte, inno radioso roccheggiante, alti e bassi dosati tra finte e pause, crescendo strumentali emozionanti, urla liberatorie. A Lover of the Light segue Lovers’ Eyes─vogliamo credere sia una scelta consapevole aver affiancato due canzoni dal titolo simile─scelta nell’ultimo tour come brano per aprire i concerti, ipnotica verso il finale, trascinante ed esplosiva. Pausa intervallo: Reminder, due minuti di essenzialità acustica, serenata voce-chitarra, gioiellino malinconico quasi filastrocca, per introdurre The Pezzone: Hopeless Wanderer, recitata e successivamente spiazzante, con un mandolino suonato come una chitarra, o una chitarra suonata come un mandolino – poco importa – in un’estasi di voci e melodie a tratti drammatiche, in alcuni tratti struggente mentre in altri ti verrebbe da ballare, o balare, come quando in concerto in Italia ci esortano a fare. Come la scorsa estate, al Teatro Romano di Verona, improvvisando un palco davanti quello vero del concerto, stordendo quasi duemila persone eseguendo dei pezzi totalmente in acustico. Non volava una mosca, spettacolo quantomeno raro da noi loud Italians, ma come si fa a disobbedire a Marcus Mumford, pure con la mano distrutta al tempo, che fa shhhhht ad un’arena in adorazione, impossibile. Tra lacrime e sorrisi, un pensiero comune ci attraversava la mente: se ne parlerà per un bel po’, ed io c’ero.
La seconda metà del disco non è altrettanto spumeggiante, siamo comunque nello standard mumfordiano, quindi stiamo parlando di tanta roba, è che ci hanno abituati a di più. Notevoli i rimandi alla Dust Bowl Dance (Sigh No More) di Broken Crown, la voce del banjo player Winston Marshall in For Those Below, i cori di The Boxer (feat. Jerry Douglas e Paul Simon), la melancolia composta di Where Are You Know, ultimo episodio di questo disco dei grandi numeri, avendo già superato il milione di copie vendute in tutto il mondo.
A mente fredda, Sigh No More suona come da introduzione al più maturo Babel, inebriante viaggio musicale della durata di un’ora. In tanti si sono messi ad analizzare il successo di questi giovani artisti (il componente più vecchio ha 28 anni), si sono scomodati anche al Wall Street Journal, quando basta ascoltarli per avere la soluzione. Molto metaforicamente, il loro è il gusto di gelato che unisce gli amanti delle creme e gli amanti della frutta, è nelle playlist di padri di famiglia e adolescenti ribelli, e everything in between.
I Mumford and Sons assomigliano ai Mumford and Sons, ed ho il sospetto che non ci abbiano ancora fatto sentire niente, perché conoscendoli, il meglio deve ancora arrivare.