Questa mattina è uscito sul blog di Andrea Scanzi su Il Fatto Quotidiano, un’interessante riflessione sulla vita della canzone d’autore nell’epoca moderna. Un paio di letture dopo, un po’ stizzita, l’ho condiviso su facebook innescando orde di polemiche. Di qui alcune rifelssioni con cui ho deciso che vi ammorberò.
Il pezzo trae origine dalle uscite dei cofanetti di Fabrizio De Andrè e Giorgio Gaber, utilizzandole come pretesto per un confronto tra la produzione cantautorale dei ’70 e quella dei nostri giorni.
Il titolo, invero accattivante, lancia un dilemma: la canzone d’autore è morta o siamo solo diventati sordi? L’intero pezzo, però, non trova alcuna soluzione e la chiosa è identica al titolo. Da una penna pungente come Scanzi ci si aspettava una presa di posizione più netta, ma anche qualche argomentazione più sofisticata, diciamo.
L’errore di base, a mio avviso, è forzare le sorti mediatiche e discografiche dei vari De Andrè, De Gregori, Gaber e Battisti alle esigue risonanze riservate ai cantautori dei nostri giorni.
Scanzi non manca di ricordare l’esistenza nel circuito italiano di una nutrita schiera di interpreti del genere, allargando di molto la stessa definizione di “canzone d’autore” e denotando una notevole modernità di vedute in questo.Per capirci, cita progetti come Il Pan del Diavolo, Il Teatro degli Orrori e Lo Stato Sociale, non esattamente realtà cantautorali nel senso più canonico del termine, poi però pone a confronto questi fenomeni con i vari Mostri Sacri e ne decreta una morte impietosa: in primo luogo denotando la stasi che sta toccando a luoghi storici della canzone d’autore, come ad esempio il Tenco, poi vivisezionando lo spessore dell’offerta radiofonica contemporanea, elargendo riuscitissime didascalie ai vari parolieri in rima baciata che ci propinano oggi giorno le FM nazionali. Giunge persino a considerare il fenomeno dell’ex genero di Gianni Morandi come degno esempio (non chiedetemi di scriverne il nome, perchè poi va a finire che google lo indicizza ed è un casino!).
Infine distribuisce colpi di scure a destra e a manca: il ruolo sociale del cantautore, il rap che è la nuova canzone, i dischi che non si vendono più.
Sul ruolo di denuncia del rap, beh, c’è davvero poco da dire, non è neanche un pensiero così originale, insomma, lo dice anche Morgan dal banco di X-factor.
Ma sul ruolo sociale del cantautore e sulla salute dell’industria discografica, invece, si potrebbe parlare per ore.
Bisogna capire quali strati della società sono realmente i destinatari della canzone d’autore innanzi tutto. Perchè De Andrè e Guccini non scrivevano canzoni rivolte ai signori in doppio petto che dirigevano la Rai, scrivevano parlando ai ventenni di allora. Gli stessi ventenni che sopravvissuti ai ’70 oggi hanno 60 anni e ci dicono che nulla è come era una volta. Possiamo dire GRAZIE?! Sono passati 40 anni di storia e le cose sono cambiate: io mi sarei preoccupata del contrario.
Siamo passati dalla macchina da scrivere all’iPad e pretendiamo che il linguaggio musicale e culturale sia lo stesso? Soprattutto pretendiamo di misurare con gli stessi parametri lo stato di salute della canzone italiana?
Che l’industria discografica sia destinata inevitabilmente a ridimensionarsi è un dato di fatto o, se vogliamo, un fenomeno già in corso. L’unica modalità che hanno le major per non dover rinunciare ai grandi numeri a cui i ’90 le hanno abituate è investendo su progetti usa e getta che nulla hanno di denuncia, di ricerca stilistica nè di progettualità a lungo termine.
Questo però non significa che lo stato della canzone d’autore italiana sia agonizzante. Al contrario. Sempre più band sentono l’esigenza di passare alla scrittura in italiano, aumentando la portata della propria musica e beneficiandone oltre misura: per fare due esempi i FBYC, autori di testi incredibilmente struggenti, e gli Zen Circus, che quando si citano le realtà autorali in Italia non si possono dimenticare.
Ciò che forse è ormai irrimediabilmente deceduta è la cultura mainstream. L’avvento delle moderne tecnologie ha prodotto un divaricarsi stratosferico tra la realtà culturale “promossa” dai canali tradizionali e nazionali e quella che è la capità culturale reale dei ventenni di oggi.
A scuola si leggono i Promessi Sposi a pappagallo ma sul comodino i ragazzi hanno David Foster Wallace.
Non è un caso che il più avvincente dibattito politico dei nostri giorni sia andato in onda ieri sera su una televisione privata e non sulla Rai.
I canali di comunicazione tradizionali non sono più in grado (e non vogliono esserlo) di sostenere lo sviluppo culturale delle nuove generazioni, quelli che commentano le dirette TV a colpi di hashtag su twitter.
Ma considero un gigantesco errore sentenziare la morte della canzone d’autore per il semplice fatto che non la si senta in radio. O che non esistano più “brani-locomotiva lanciati a bomba contro l’ingiustizia”.
Per fare un esempio, uno solo, durante il già nominato dibattito politico di ieri sera un candidato ha citato come figura di riferimento del proprio Pantheon di sinistra Papa Giovanni.
C’è un canzone che in appena nove mesi ha raggiunto le 334.381 visualizzazioni su youtube, e i suoi autori hanno già fatto 120 date suonando nei più prestigiosi club d’Italia.
La canzone s’intitola Mi sono rotto il cazzo e in un verso recita “i comunisti prendono a modello Cristo mentre i preti contestualizzano bestemmie”.
Ecco, io ci vedo la nuova vita della canzone d’autore, anche se la radio non la passa mai.