Ogni tanto staccare la spina non è una scelta, è una necessità fisica del corpo. Accade più o meno che le tue mani continuino a battere le lettere sulla tastiera, mentre la tua mente sta viaggiando altrove, lì dove nessun avviso di Gmail può apparirti infimo e strisciante nell’angolino del desktop. È in questi momenti di viaggi spaziali e riflessioni cosmiche su cosa ti cucinerai stasera che hai bisogno dell’accompagnamento perfetto. Oggi ti vogliamo proporre l’ascolto di un artista danese dal nome impronunciabile, Søren Løkke Juul, che avendo capito la mala parata si è scelto un moniker di ben più facile memorabilità, Indians. Il suo primo album – Somewhere Else – uscirà il 29 gennaio in America e il 28 in Europa per 4AD Records, la stessa etichetta, oltre che di Blonde Redhead, Grimes, Purity Ring, anche di quella vecchia conoscenza che è Bon Iver, da cui questo album trae mood e ispirazione.
C’è la voce in falsetto, accompagnata spesso da un pianoforte dosato o da una chitarra che ben si presterà all’esibizione in acustico, che ti fa sciogliere i nervi accavallati da tensioni ataviche, lontane negli anni, della cui matassa hai da tempo perso il bandolo. È un lavoro che si potrebbe liquidare in poche parole definendolo alt-pop o folk-tronico, scagliando la pietra della colpevolezza sul buon Indians per non aver proposto niente di nuovo da quello che già ascoltavamo nel 2007. Ma gli vanno riconosciuti almeno due meriti: quello di aver firmato il suo primo LP con una delle etichette indie più prolifiche e ammanicate del mercato e quello di farti trascorrere una mezz’ora buona a ricordare quello che ti faceva chiudere gli occhi ed emozionare senza storcere il naso cinque anni fa.