I Santo Barbaro sono una di quelle band “di nicchia”, che per motivi che sempre meno riusciamo a comprendere restano per anni un’esclusiva degli appassionati di genere o di chi frequenti un certo ambiente.
“Navi” è il loro terzo disco, autoprodotto (e firmato Cosabeat), diversissimo dal precedente “Lorna”, capace di esplorare territori elettronici in una maniera che conquisterà i più eclettici di voi sin dal primo ascolto. A patto che siate disponibili ad abbandonarvi al ritmo e alla sequenza dei brani. Navi è davvero un viaggio per mare, in un mare che si fa grosso e poi quieto, che solchiamo immersi nei rumori, nei respiri e nei cigolii dell’imbarcazione che questi ragazzi hanno costruito con le loro mani, al Cosabeat studio di Franco Naddei (che ha suonato synth, pianoforte, lamiere, basso, manipolazione sonora). I testi di Pieralberto Valli (che oltre a cantare suona basso, lamiere e chitarra) fanno il resto.
Un’ultimo consiglio, prima di lasciarvi alle loro parole: andate a vederli suonare live (situazioni in cui la formazione si fa terzetto, e comprende anche Enrico Mao Bocchini alle percussioni), il loro set – anche per come si presenta sul palco – è davvero unico.
1. Urania: è stato il pezzo più travagliato del disco. Conta almeno quattro versioni. La struttura centrale si gioca sul tema di violino e violoncello, mentre il testo nasce dalla domanda di uno psicologo: “Come si immagina tra 5 anni?”. Il resto sono associazioni tra realtà e immaginazione.
2. Quercia: è l’ultimo pezzo registrato del disco. Il ritmo è creato sbattendo i piedi sul pavimento di legno. Il testo prende spunto da un sogno di Chesterton riportato da Borges. Nel racconto originale Chesterton sogna un albero che divora gli uccelli che si posano sui suoi rami. L’anno seguente l’albero fiorisce piume.
3. Terzo paesaggio: pezzo nato chitarra e voce. La linea di accordi è irregolare e si adatta alle parole del testo. Il tempo è scandito solamente dalle lamiere zoppe suonate senza campionamenti e da una pioggia di synth. Il testo è una semplice riflessione su ciò che permane nel tempo.
4. Transit: qui, come in altri pezzi, è fondamentale la presenza della neve: quella vera, fuori dalle nostre finestre nel periodo in cui fu scritta, e quella di “Da un villaggio in memoria del futuro” di Andrej Platonov. Seppur tardiva, Transit è per me la colonna sonora di quel libro.
5. Non sei tu: lo stravolgimento tra provino iniziale e versione finale raggiunge qui la sua più ampia espressione. Non rimane niente della versione iniziale. Resta solo un ritmo frenetico di synth e batterie elettroniche. Il testo è la ricerca di una persona e di un luogo.
6. Prendi me: gioco di contrasti; santo e barbaro; io e noi. Una canzone sentimentale per molti versi, disperatamente diretta verso l’altro, verso il fuori. Il finale a cassa dritta bilancia la prima parte e la definisce. Il testo è una sincera chiacchierata allo specchio.
7. Il corpo della pioggia: è stato il primo pezzo registrato. Inizialmente doveva finire in una compilation. Poi abbiamo capito che poteva rappresentare il primo capitolo di un nuovo album. L’unico in cui rimane, in lontananza, l’eco di una chitarra.
8. Tempesta: è un’altra intervista allo specchio durante un momento di difficoltà. In quell’intervista si dichiara la volontà di non voler sfuggire a quell’istante ma, al contrario, di volerlo assaporare completamente.
9. Io non ricordo: è un racconto di un momento personale. E’ il cammino percorso tornando verso casa, di notte, provenendo da un’altra casa. Ed è il riconoscimento che, con tutta probabilità, si sta percorrendo quel tragitto per l’ultima volta.
10. Nove navi: doveva essere il titolo dell’album. Così non è stato, ma è comunque la canzone che chiude il disco dandogli significato. Le nove navi sono i futuri possibili, le vite future. Ma solo una nave sarà quella su cui saliremo realmente. Le altre saranno vite abbandonate, abbozzate, parallele.
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