I (gli?) Wildmen sono de Roma anche se a guardarli bene paiono usciti dagli anni ’60 con pornobaffi e giacchette jeans d’ordinanza. In questo debutto però, invece che risultare una classica e spudorata copia di robe tipo Black Keys e simili, uniscono la sfacciataggine del punk-hardcore 80’s con la psichedelia fuzzosa tipica del garage rock. I pezzi puntano quindi di sicuro più alla botta che alla tecnica o alla complessità degli arrangiamenti, anche perché stiamo parlando di un duo batteria-chitarra; insomma, la musica è di quelle che in cuffia suonano 60 e dal vivo 100.
Seriamente, un disco così non rimarrà tra i top della mia personalissima classifica di fine anno se si parla di dischi da ascolto sul bus per andare a morir- (ehm) lavoro, ma se si tratta di piazzarli sul mangianastri (perché mi rifiuto di dire sull’emmepitrè) ad una festa o di usarli come arma in una battaglia stereo-VS-stereo contro un duo di deejay giapponesi venuti per sfidarti in quanto ex ragazzi della tua morosa, beh allora il discorso cambia. La cosa infatti che ho apprezzato di più del disco è proprio l’immediatezza che rende ogni pezzo un possibile singolo-sfascione a sé stante.
Haters gonna hate, dice la traccia n.1, come un’ulteriore conferma del fatto che i (gli? sto male per questi dubbi, giuro) Wildmen non rivoluzionano nessun genere musicale e non gliene frega proprio un cazzo di farlo.
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