Circondati come siamo da immondizie musicali proposte a getto dai consigli delle majors, fa sempre piacere constatare l’esistenza di nuove entusiasmanti realtà musicali, che riescono dove i grandi falliscono. È il caso di Echopark, moniker del salentino Antonio Forte, che nell’intervista che leggerete qua sotto, ci ha raccontato la genesi del lavoro, i suoi esordi e il rapporto con Londra e Lecce, oltre alle motivazioni e le riflessioni personali che si celano dietro la realizzazione di questo brillante esordio. Ecco tutto quello che c’è da sapere sul suo conto, e allora buona lettura!
Direi di partire subito dalla genesi. Com’è nata l’idea e il progetto? Nel momento in cui hai dovuto decidere quale moniker usare, come mai sei ricaduto su Echopark? Raccontaci quindi una breve cronistoria del tuo percorso artistico, e se in termini di aspettative, è cambiato qualcosa da quando hai iniziato questa avventura musicale.
Echopark era nell’aria già da un po’ di tempo, aspettava solo di essere messo su carta. C’era questa voglia di scrivere qualcosa di mio che a un certo punto è diventata più forte della voglia di suonare in giro, perdere l’udito in una sala prove, avere una band con cui litigare. E’ stato quasi come andare in vacanza. Nessuno a cui dar conto, nessun obiettivo da raggiungere, nessuna aspettativa di feedback, niente di niente. Volevo solo registrare un disco che rimanesse a me. Diciamo che in quel periodo avevo una visione un po’ egoistica della musica. Poi quando i tuoi sforzi vengono apprezzati e ottieni un riscontro positivo diventa tutto più bello no? Il nome è stata un’ idea di Daniele Moreno che mi ha aiutato sin dall’inizio nella produzione e nell’artwork. Adesso suona anche la chitarra nella band, è il fratello maggiore che non ho mai avuto insomma. In quel periodo stava leggendo un libro su un Kevin Mitnick in cui il fratello dello stesso Mitnick morì di overdose in Echo park a Los Angeles. Mi piacque subito il nome e la California che nasconde e decisi di appropriarmene.
Se ne parla di continuo, e da diverso tempo ormai. La fuga dei cervelli è tra i fenomeni in continua crescita nel nostro Paese. Pensi che all’estero ci sia più interesse e disponibilità per progetti basati su un approccio musicale del tutto innovativo e di qualità, e non sulla semplice preoccupazione di vendibilità del prodotto? Ti sei mai chiesto se, con il tuo nuovo progetto, avessi potuto raggiungere lo stesso risultato anche qui in Italia?
Io sono un emigrante, ma continuo a pensare che l’Italia sia il paese più bello del mondo. Quando vai via lo stato d’animo che domina è quello di rivalsa, come andar via da una nazione che non senti tua, che non ricambia i tuoi sforzi. Dopo subentra la malinconia e passi la giornata a pensare ai tuoi amici, ai tuoi posti, a tutte le cose che hai lasciato alle spalle per seguire i tuoi obiettivi. E’ come vivere nell’indecisione di scegliere tra quello che può offrirti il mondo là fuori e le piccole ma preziose cose che ti hanno cresciuto.
Sinceramente non credo che in Italia oggi ci sia spazio per la musica. Non abbiamo nessun festival a livello internazionale né band riconosciute nel panorama mondiale. E’ come se fossimo chiusi nel nostro microcosmo, ignari di quello che succede altrove. Ci sono fortunatamente delle piccole realtà indipendenti che puntano alla quantità più che alla vendibilità, ma è un discorso che parte dalla passione più che dalla musica vista come risorsa. L’indie in senso stretto ormai esiste solo in Italia, altrove è il nuovo mainstream. Il risultato è che le poche band valide non hanno i mezzi per uscire, i ragazzini ascoltano merda in radio, i festivaloni fanno ogni anno più schifo e rispecchiano una decadenza e un anacronismo diffuso su più strati del sociale. La differenza tra il nostro modo di vedere la musica e quello inglese, ad esempio, è quella che passa tra un qualsiasi fenomeno d’intrattenimento e una delle più importanti industrie nazionali. Sinceramente non so se Echopark avrebbe avuto lo stesso impatto in Italia, ma sicuramente ci sarebbero state meno orecchie predisposte all’ascolto.
Per chi non lo sapesse, sei stato membro di band anche molto diverse tra loro. Parlando di ispirazione, c’è un filo conduttore che unisce tutti questi progetti musicali? Ritieni che Echopark, sia la più coerente e fedele incarnazione della tua attuale personalità artistica o hai qualche rimpianto riguardo al passato?
Credo che Echopark rappresenti quello che sono in questo momento della mia vita, e, a differenza dei progetti passati, non è contaminato dall’arrangiamento da band, cosa che mi manca tanto, ma che mi ha costretto a lavorare in solitaria in fase di scrittura. Un filo conduttore c’è sempre, perché in fin dei conti ognuno conserva un’intima sensibilità verso la musica, ma riconosco di essere cambiato tanto in questi anni.
Trees è uscito lo scorso Aprile per la brooklyniana Enclaves, in collaborazione con l’italiana We Were Never Being Boring collective. Due label con un catalogo di band straordinario. Quanto è stato importante avere alle spalle una realtà dualistica di questo tipo?
Ho voluto fortemente il duo-label, sia per avere la possibilità di raggiungere più canali possibili, sia perché mi piaceva l’idea di avere una label Italiana. Dopo aver firmato con Enclaves ho contattato WWNBB proponendogli una collaborazione. Loro si occupano del fisico in Italia e in gran parte del booking. Seguivo già da tempo l’etichetta e le band del roster e sono convintissimo che siano stati la scelta migliore per Echopark in un contesto italiano. Enclaves è invece responsabile della distribuzione digitale Worldwide e fisica in US e UK. Finora siamo tutti contenti di quello che sta venendo fuori!
Numerose recensioni positive su diverse riviste, ognuna a suo modo entusiasta di te e del tuo lavoro. La tua musica ha un suono abbastanza definito, che riporta alla mente una vasta gamma di influenze. Quanto tempo hai impiegato per definire tale identità musicale? Sei stato influenzato da qualcosa in particolare, o è il frutto di un processo di ricerca naturale?
Creare un sound proprio comporta tempo. Spingere le potenzialità delle macchine, educare l’ascolto, capire come bilanciare le dinamiche di un pezzo, sono tutte cose che si acquisiscono con l’esperienza. La scrittura invece è qualcosa d’innato, è un istinto che non tutti hanno. Le influenze sono certamente importantissime ma tante volte mi è capitato di leggere una recensione di un mio lavoro e di non ritrovarmi nei riferimenti citati. Questo per dire che nel processo che va dall’ascolto alla comprensione all’assimilazione e infine alla scrittura c’è un filtro importantissimo nel mezzo che è l’artista e il suo approccio, per forza di cose unico, alla composizione. Detto questo, non condivido tanto chi cerca riferimenti forzati per ricondurre un brano a qualcosa di familiare. Due pezzi potrebbero (e ce ne sono tanti esempi) avere la stessa identica struttura armonica e suonare lontani anni luce.
Chi è stato il producer dell’album e chi ti ha aiutato nel making of?
Trees è stato registrato quasi interamente in cameretta con un paio di microfoni. Ora, questo è vero, ma io non sono un mago del DIY. Le batterie (suonate da Andrea Rizzo, Girl With The Gun), come anche alcune chitarre fondamentali, sono state riprese al Sudestudio ad inizio agosto. La produzione vera e propria è stata curata da me, Daniele Moreno (anche coautore dell’artwork) e Matilde Davoli (Girl With The Gun) a Londra. Matilde ha mixato l’intero disco in maniera impeccabile, tanto che alla fine suona esattamente come me lo immaginavo: caldo, pieno di layer sovrapposti, riverberi a pioggia, con le melodie che si fanno spazio sgomitando nella nebbia di suono. È un disco volutamente sporco.
Alan Douches del West West Side Studios di New York si è invece occupato del mastering.
Questo per dire che quello che ne è venuto fuori è tutt’altro che il suono di partenza della mia cameretta. Se non ci fossero state tutte queste persone ad aiutarmi non credo che avrei potuto ottenere lo stesso risultato.
Nel brano Youth and Fury, parafrasando il verso “fuck the gravity, fuck the fear, cut all the ropes and let me fly”, emerge la voglia di rivalsa nei confronti di un sistema che lascia ancora poco spazio ai giovani. Tu che di fatto sei un italiano all’estero, come hai vissuto e come stai vivendo la realtà italiana che ti arriva dai giornali e dal web?
Sinceramente credo che la maggior parte dei ragazzi che lascia l’Italia non lo faccia per andare ad esplorare il mondo, ma per necessità. In Italia abbiamo il 44% di disoccupazione giovanile, il leader di un movimento politico che ha avuto il 33% dei consensi italiani è stato condannato a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, le giovani famiglie non possono fare alcun progetto futuro a causa di assenza di certezze. È paradossale come in questo quadro disastroso e decadente possiamo ancora gioire dei programmi televisivi della domenica pomeriggio che ci dilettano col matrimonio di Valeria Marini o la nuova fiamma di Belen.
Gaber cantava “ io non mi sento italiano” e credo che il suo pensiero sia condiviso da molti oggigiorno.
Cosa non vorresti si dicesse mai sulla tua musica?
Che è noiosa.
Teleportation esordisce così: I know where you are, but i don’t know how to get there. La possibilità di trasferirsi istantaneamente da una parte all’altra del globo, si sa è ancora un progetto utopistico. Ma adesso che c’è la Rete ad aggiornarci in tempo reale su tutto quello che succede nel mondo, e che soprattutto permette l’interazione tra utenti anche a distanze sconfinate, fare musica a Lecce, o a Londra, è veramente così diverso? Quanto è importante per voi il legame con il territorio?
Fare musica a Lecce o a Londra non è diverso. Quello che è diverso è tutto ciò che ti circonda mentre fai musica. Il tuo modo di scrivere rispecchia quello che sei, e tu sei una spugna. E’ quindi naturale assimilare stimoli dall’ambiente, quasi quanto respirare. Se a questo aggiungi che le possibilità di diffusione si moltiplicano, il calcolo è bello che fatto. Il legame col territorio è importante, ma allo stesso tempo perde di significato quando ti misuri con una realtà più grande. A quel punto non ci sono più gli amici sotto il palco ma degli sconosciuti che vengono ad ascoltarti solo perché interessati. E se nessuno è interessato a quello che fai suoni da solo.
Cosa stai ascoltando in questo periodo? C’è qualche band che ti ha particolarmente folgorato dal vivo e che vorresti consigliare ai nostri lettori?
Ho visto i DIIV e consiglio a tutti di ascoltarli attentamente. Poi Grizzly Bear, the Whitest boy alive e Tallest man on earth su cui non credo serva prolungarsi oltre. Tra pochi giorni sarò a Barcellona per il Primavera Sound, lo sto aspettando da un anno. Proprio oggi è uscito l’ultimo singolo di James Holden ed è immenso. Poi Daughter, l’ultimo dei Local Natives e un sacco di altra roba che non ricordo. Ho ascoltato anche il singolo del nostro Cosmo e mi è piaciuto tanto!
Un’ultima domanda: quando tornerai a suonare in Italia?
Scendo a Lecce ad inizio giugno e forse riusciamo ad organizzare un concertino tra amici. Il 9 abbiamo una data importante a Londra, il 28 suoniamo all’HanaBi a Marina di Ravenna e via discorrendo. Se tutto va bene, a settembre/ottobre ne vedremo delle belle, ma non anticipo niente per scaramanzia.
Prima di lasciarti andare, vuoi dire qualcosa ai nostri lettori?
È con questo è tutto, ti ringrazio ancora per il tempo concesso! A presto!
Ascoltate musica buona, mangiate sano, dormite 4 ore a notte.