Sono il peggio che questa band potesse avere come compagnia.
Io di indiefolk, etno, tropical pop, world music non so niente, e neanche mi interessa. Associo tutte queste parole a ciò che mi può essere più vicino musicalmente parlando, ma non vado oltre ai Moldy Peaches o ai tUnE-yArDs o qualche pazza sperimentazione africana di Damon Albarn.
E non mi interessa.
E inoltre ho sempre avuto delle deleterie e scoraggianti associazioni mentali tra le parole “etno” “music” a quelle tristi compilation dai tipo “I suoni del mondo” sugli scaffali degli autogrill, e credo che chiunque riesca ad addormentarsi con quella musica è statisticamente nel range di quelli che la mattina si alzano, bevono il caffè e sterminano a colpi di machete la propria famiglia.
Seriamente, non sono la persona giusta.
Non contando che io vengo da massicce dosi di punk adolescenziale, e i fiori e i colori, la tauromachia e i fricchettoni sgargianti post sessantottini mi fanno venire voglia di tagliuzzarmi gli avambracci compulsivamente alla GG Allin. Tutta la musica che amo visceralmente è sempre stata qualcosa di estremo, di socialmente dissacrante, non disdegnando qualche deviazione sul sacrilego, se fatto con intelligenza. Sono del credo della buonanima di Bill Hicks, la musica dev’essere suonata con la chitarra e la famosa pistola in mano. Ergo rock per definizione.
L’ avevo detto o no, che non ero la persona giusta? Mi pare di si.
Ma il vero nocciolo che mi rende, a mio scapito, il candidato su cui non puntare neanche quando tutti gli altri si sono ritirati, è che sono sempre, comunque, in ogni occasione piena di qualsiasi tipo di pregiudizio e preconcetto. Mi crogiolo nelle proiezioni immaginarie di esperienze non ancora vissute, sperando appassionatamente che ciò che di meglio riescano a partorire le mie più rosee aspettative, cresca, maturi e diventi adulto esattamente, puntualmente, precisamente. D’altronde mi pare comunque una confessione abbastanza in linea con la stragrande maggioranza della cosiddetta coscienza collettiva junghiana, ovvero delle 6.874.078.491 milioni di teste che respirano, si grattano e ammazzano involontariamente formiche, vicino o lontano da me.
Dunque, dopo una breve auto-assoluzione, la cosa migliore che mi viene in mente per portare a termine questo report è arrivare alla verità smettendo di fingere di partire da una tabula rasa, ma cercando col lanternino le ultime vestigia della mia umiltà e tentando si smentire costantemente me stessa.
Quando mi hanno chiamato al telefono la prima volta gli honeybird & the birdies, li avevo visti una sola volta, mesi prima, e per quanto tutto l’entusiasmo che sprigionano durante il live fosse frizzante, non ho avuto modo, e neanche l’ho cercato, di rivederli in giro.
Di sicuro sono poco in sintonia con una certa scena che sta tornando in voga, simil shoegaze, in cui i musicisti sono talmente felici di stare sul palco, che pare stiano cantando con una pistola puntata dietro la schiena, e il ricattatore dietro di loro col cellulare in mano assicura che alla loro famiglia non sarà torto un capello.
Rispondo al telefono, dietro la voce di Monique:
”Ciaooooooooooflaviaaaaaaaacomestaiiiiiiii??????NoisiamogliHoneybird&thebirdiiiiiiiiiessss!!! Vieni con nuuooi in tour? ci fai le fuotoooo???
C’è qualcuosa che nuon mangi??? Sei allergica a qualcuosa?? Ti druoghi????”
Apriti cuore:
già pregustavo lo sballo lisergico, fiumi di vodkatonic accreditati su cui surfare e da lontano arrivavano sempre più nitidamente delle voci angeliche che risuonavano tra le lamiere del furgone e il rombo del motore che ingranava la prima…e le voci cantavano “Tiny dancer” in coro, mentre il bus si muoveva dentro il sole al tramonto verso la nuova, prossima, eccitante, data estera.
E in un orecchio Lester Bangs sussurrava di non diventare mai, per nessuna ragione, amica delle rockstar, di essere sincera e spietata. sincera e spietata.
Cazzo si, vengo con voi, certo che vengo, ci vediamo a Roma.
Il cazzo.
La verità è che il tour è stressante e per molti versi poco divertente.
Ci si sveglia all’alba per macinare centinai di kilometri, e se sei in Francia, della Francia vedi i guardrail di cemento dell’autostrada e le punte degli alberi a destra e a sinistra. Si dorme a casa e in letti di sconosciuti, e pur fidandomi delle incoraggianti statistiche sull’igiene mondiale, continuo a preferire il cesso di casa mia. Si sta col culo attaccato al sedile del furgone per ore, finché le tue chiappe di auto-tatuano il pattern della tappezzeria, e tu muori di sonno e non riesci a trovare una posizione che ti permetta di avere il collo stabile, per cui traballi tra il finestrino e il tuo compagno di fianco, e entrambi cominciate a starvi sui coglioni già dalle 7 di mattina. Intorno alle 20 vi guarderete in cagnesco stringendo il coltellino svizzero in tasca.
Arrivi e parli con gli organizzatori, che alla prima, seconda, terza volta hanno tutti la stessa faccia e vengono chiamati “Mitico” di default.
Scarichi davanti il locale, porti dentro la roba, monti, fai il soundcheck, mangi (se ti dice bene), fumi una paglia e inizi a suonare.
Suoni, suoni, suoni, e poi la tiritera al contrario: “Mitico”, smonti, porti, carichi, paglia.
Ti dice ancora meglio se “Mitico” non fa storie sul cachet.
Io che sono l’accodata del gruppo, non ho neanche la soddisfazione di sentirmi dire ”brava, bel lavoro” e lì per lì un po’ mi rattristisco, poi però mi viene in mente che c’è gente che faceva la fila per fare due settimane aggratis per l’Europa, e mi ringalluzzisco. È proprio come dicono tutte quelle bands lamentose che piangono su Rockit di aver avuto una data da schifo. In più c’ho la macchina fotografica e il computer che valgono molto più di un mio rene, e vivo nell’ansia che uno stronzo me le rubi, quindi ci vado anche in bagno insieme, con ovvie complicazioni logistiche.
Monique è come la faccia della luna piena, di uno splendore candido, grande e rassicurante. È indubbiamente quella che porta i pantaloni, la matresse, la mamma single con prole al seguito. Ed è indubbiamente il mistero che in questi tre giorni mi ha assorbito maggiormente, perché da quando ho cominciato a fare domande sulla sua famiglia e le sue origini, le uniche risposte che ho avuto sono state
“I miei discendono dai profughi dell’inquisizione spagnola”, ergo a parte che è di origine ebrea, e appartiene alla prima generazione dei suoi che ha toccato il nuovo continente, altro non ho potuto carpire da quei vitrei, enormi occhi.
È già difficile cercare di capire la personalità di donna in un giorno, di una donna frontman poi…
Di una donna… frontman… yiddish… era meglio se mi chiedevate di slegarmi da tre catene d’acciaio immersa in una vasca piena di miele e pirana.
Ma facciamo un passo all’indietro.
Il fascino dei frontmen (o frontwoman in questo caso) è stato analizzato, sviscerato e portato a letto così tante volte, che non sto qui a spiegarvi. Ma la trappola è palese, e ammetto che più volte l’amo me lo sono ritrovato in bocca prima della fine del primo pezzo: noi tutti, nessuna testa esclusa, nessun capello tralasciato, amiamo visceralmente il frontman.
L’uomo, la donna alfa, il capogruppo, colui che si espone in prima persona, impugna o si mette dietro a un cono per cantare ciò di cui è convinto (voglio essere ottimista), merita e ottiene di diritto la nostra ammirazione.
E se per ammiccamenti, corporeità, atteggiamento e carisma riesce a essere credibile e coerente, almeno per quella mezzora, cadiamo inevitabilmente nella trappola della fascinazione.
Il vero, vero, vero frontman è colui che ti convince che lui VIVE quello che canta.
Se è rock, si sveglia prima delle tre donne che ha dentro il letto e beve gin.
Se è folk, ha sicuramente una panchina di vimini sotto un portico, sotto la quale, con un filo di paglia in bocca, canta di quanto gli manchino i monti della Virginia Occidentale (anche se è di Baranzate).
Se è jazz, causa tre pacchetti, la sua voce è rauca dal mattino, e per la notte sarà pronta per scioglierti.
Se è punk, è morto.
Se è pop, fatevene una ragione, non ha alcun fascino.
E se è come Monique?
Se è come Monique, potresti giurare che si sia spinta ancora più a sud delle Falkland per captare le vibrazioni dell’oceano, dentro il suono ancestrale delle onde dei mari, che durante un rito propiziatorio azteco, sia caduta in una trance così profonda, da aver visto il suo animale guida, e l’abbia perdonato di averla abbandonata da bambina. Se è come Monique puoi essere certa che abbia trovato il vero nome delle cose, e per questo riesca a comunicare in segreto nell’orecchio delle api regine.
Se è come Monique, che quando sul furgone vede un cavallo, lo saluta dicendo
”ciao bel cavallo italiano, fai il bravo e mangia tanta erba”
o quando guarda verso il cielo, con enorme solennità annuncia che
“le nuvole sono proprio belle, non trovate?” , o ancora quando sale sul palco, e appena il charango viene pizzicato sulla prima corda, il suo sorriso si spalanca come una porta su un universo senza peccato, e i suoi occhi si allargano, si allargano all’inverosimile, e dentro quei due specchi grigi rimbalzano i sorrisi del pubblico….
Se è come Monique, è puramente naif, nell’accezione più positiva che vi viene in mente.
Ed è per me un onore stare con queste persone, nonostante la stanchezza e tutto il resto di cui sopra, sono molto fortunata.
In soldoni, si. È proprio una figata stare con la band in tour, fate bene se mi invidiate.