Alberto Macone è un illustratore con una storia molto affascinante da raccontare: la sua vita è stata costellata di eventi in apparente contraddizione, o successione se vogliamo, che l’hanno portato a tirare fuori il talento che gli scorre in vena per caso, e non per vocazione. Nei suoi disegni c’è sempre qualcosa di rosso e uomini con divise militari che mi fanno venire in mente l’URSS; e poi c’è il surrealismo magrittiano che rende naturale ci siano corpicini conservati in scatole da uova o affacciati a finestre incastonate sotto un tavolo. Io Alberto non lo conosco di persona, ma quello che ho capito dalle sue parole è che è un uomo che ha trovato la felicità in quello che fa.
Nasci negli Stati Uniti e ti trasferisci poi a Gaeta. Che impulso ha dato alla tua arte questa piccola gemma arroccata sul mare e quale stimolo ti sei portato dietro dall’America?
Ho trascorso a Gaeta la mia adolescenza. Compiuti 18 anni mi sono trasferito a Roma per studiare all’università e di lì non mi sono più mosso. Gaeta rappresenta da un lato il posto in cui ritrovare gli affetti, quelli veri; dall’altro la piccola ed asfittica dimensione provinciale da cui tutt’ora fuggo. Credo che l’impulso alla mia “arte” sia dato non tanto dalla bellezza del luogo geografico in se, quanto da quell’insieme di sentimenti che hanno caratterizzato gli anni in cui ho vissuto lì. Degli Stati Uniti porto con me pochissimi fotogrammi avendo vissuto lì solo per i miei primi tre anni; mia madre invece è stata lì per oltre venti anni e credo, quindi, che un certo patrimonio culturale (soprattutto visivo) tipico di quei luoghi mi sia stato trasferito, in maniera assolutamente passiva, da lei.
Quali sono le tue altre valvole di sfogo, oltre il disegno?
Lo sport, al momento il nuoto. E camminare tanto, tantissimo. Ovunque.
Proponi spesso il tema dell’attesa. Cosa rappresenta per te l’atto di aspettare? Io trovo che sia un gesto che può derivare solo da tantissimo amore e che al contempo possa essere fonte di amara delusione.
È vero, la delusione può arrivare… ma solo quando l’attesa è finita. Finché si attende si rimane sospesi in una dimensione dove tutto è ancora possibile, dove i confini tra sogno, realtà e speranze sono davvero labili. Sono quelli i territori che preferisco esplorare, quelli in cui tutto è in divenire, quelli in cui più si è a contatto con i propri desideri ed aspirazioni.
Cosa ti rende triste?
Da pochi mesi ho perso mio padre. La consapevolezza della sua assenza è l’unico sentimento che io riesca ad associare alla tristezza. Tutto il resto è malinconia.
Ci mandi una fotografia della scrivania su cui stai lavorando in questo momento?
Quanta politica c’è nelle tue illustrazioni?
Credo che non ce ne sia affatto, almeno non a livello cosciente. Forse in qualcuno dei miei lavori potrei aver intercettato qualche tematica tipica del dibattito socio-politico ma in maniera assolutamente casuale.
E biologia?
Di questa credo ce ne sia di più. Non ovviamente in termini di cellule e di cose visibili solo al microscopio, ma in quelli di rigore e metodo che sono fondamentali per la mia attività di ricercatore.
Hai un sogno ricorrente?
Sì, sogno spesso gli tsunami, onde gigantesche che inghiottono la città. E io, spaventato ed eccitato allo stesso tempo, osservo la scena dal terrazzo di casa mia. Lancio un appello a chiunque si senta di darmi una interpretazione convincente!
Gli uomini passano, le idee restano. Tu per cosa vorresti essere ricordato?
Premetto che preferisco gli “uomini che passano” alle “idee che restano”, l’incanto della vita che pulsa alla solennità delle statue e dei monumenti celebrativi. Non credo di avere grandi idee da donare al mondo, al più qualche disegno da regalare agli amici più cari. Il loro è l’unico ricordo di cui mi interessa e credo che durerà tanto più a lungo quanto più alta sarà la qualità della carta su cui disegno.
Se ti dico Dance Like Shaquille O’Neal, cosa mi disegni?