Ci siamo, arriviamo a Barcellona dopo ventordici ore di furgone.
Dai finestrini chiusi il sole è abbagliante, i 4 bikini che mi porto dietro urlano vendetta dentro la valigia. Parcheggiamo davanti l’hotel che ci ospita il primo giorno, dai ci siamo… eccolo, sono pronta, mi smanico tutta, pronta ad accogliere il caldo che mi penetrerà dentro le ossa zuppe, i raggi che faranno rispuntare le lentiggini… apriamo le portiere e… la Bora. Il GELO.
“Un vento a trenta gradi sottozero” avrebbe detto il buon Battiato .
Fa nulla, dai, si sa il vento è passeggero, tra un po’ andrà via, intanto noi non ci scoraggiamo, cazzo tra poche saremo saremo dentro il Primavera Sound. Passerà.
Check in nell’albergo, braccialetti presi, tutti in camera a scaricare e poi giù ancora a piazzare il furgone nel parcheggio nel Festival.
Prima tappa degli uccellini, Primavera Pro ShowCase.
Prima di loro gli amici di etichetta Blu Willa, e dopo di loro i Foxhound.
Ma nel frattempo si entra, e oplà, salto attraverso lo specchio: il mondo camiciato, occhialuto e floreale dell’indie di tutto il mondo appare per incanto.
Tò guarda, il tizio con la barba, la camicia hawaiana e lo stivaletto nero!
Ehy, la tipa con i leggins di calzedonia bianchi e neri e le superga con zeppa!
Maddai, la ragazzina con gli shorts a vita alta e la giacca di pelle scamosciata color tundra con le spillette!
Valà, 2000 rayban di ogni colore inforcati da persone con tagli di capelli sperimentali.
American Apparel aveva solo da venir lì e far due foto, e aveva il catalogo pronto.
Sono nel regno del luogo comune indie, proprio come me l’aspettavo, solo elevato alla massima potenza.
Anyway.
Gli Honeybird stupiscono tutti gli ignari & pregiudizievoli astanti con il loro marchio di fabbrica: la verve allegra e il loro mix di etno-pop-folk-rock che riesce a mescolarsi così sapientemente assieme da risultare assolutamente sperimentale.
E la risposta è immediata.
Tempo due nanosecondi e sono impegnati a rilasciare interviste a destra e a manca, e io comincio a scalpitare per l’accredito fotografico per i palchi del Primavera, ma tò, che strano c’è un problema. Daniele Leonardo Bianchi mi fa notare che il mio accredito è diverso da quello dei fotografi, forse non potrai fare foto.
Cosa, come? Già. Ma sei sicuro? Eh si. No aspetta un attimo, cosa? Sei in panico? Gesù.
Nella vita ci vuole culo, e io ce l’ho. Metaforicamente e oggettivamente. Mi salva Andrea Sbaragli di A Buzz Supreme, il quale ha attualmente una statuina in perfetta riproduzione in scala 1:6 a casa mia, che mi ricordo di onorare ogni giorno con offerte in grano e vergini.
Accrediti per i giorni ce li ho, si parte.
Daniele c’è stato lo scorso anno, io da novella, non so nulla e tra l’altro neanche mi sono preoccupata di studiarmi la mappa. Sì Gianluigi, riponi male la tua fiducia─(LA RIPONGO BENISSIMO INVECE NDS aka Nota di Shaq).
Allora mi spiega che la press room è lì, i palchi sono dislocati così, gli armadietti son li, il costo è 3 euro al giorno con caparra, il kebab là lo fanno bene, qua c’è più gnocca che là, e tutte le cose fondamentali.
La mission dei tre giorni era: alzarsi la mattina, fotografare il più possibile, rimanere viva.
Sicché si parte, con una media di 10 km a serata, da un palco all’altro, a fare la fila per prendere i posti, sotto un vento tramontano che invece di scomparire si acuiva minuto per minuto, vestita di strati di magliette di cotone, sbarrando gli occhi davanti le stoiche fighe nordiche che sgambettano con le loro stecche bianco-violacee in minigonna.
Mortacci loro, saran cadute dentro un pentolone di vodka da piccole.
Per farvi capire: per i Dead Can Dance, solo i primi 10 fotografi: ci siamo segnati sulle mani i numeri, per evitare di essere scavalcati… e ne ho le prove:
Io faccio la trottola, e a fine giornata chiudo in bellezza con Deerhunter, Postal Service e Phoenix.
Daniele e io stremati, ci ingozziamo alle 3 di notte con due hotdog e ci diamo appuntamento al giorno dopo, salutandoci tra un taxi e l’altro.
In tutto questo non mi sono mica scordata degli Uccellini, ti pare.
Secondo giorno, palco Adidas.
Frenesia palpabile sopra le facce di tutti e tre, li becco nella press intenti all’ultima intervista prima del concerto. Monique già è elettrizzata di suo, quel giorno era un parafulmine.
Federico sbarrava gli occhioni azzurri felici da una parte all’altra, Paola non si teneva. Insomma un casino.
Sound Check al volo, dietro il loro fonico di fiducia, Daniele, arrivato a Barcellona il giorno prima per seguire le prossime tappe del tour. Un amico fidato e una massima sicurezza per il gruppo.
Ci siamo.
Attaccano Nimisneki Pachamama davanti a uno sparuto gruppo di persone, che di secondo in secondo, cominciano ad avvicinarsi incuriositi, nonostante tutti i concerti contemporanei, e la pericolosa vicinanza del palco con la costa ventosissima.
Where D’ya Live Yo?, Elastic Stares, You Should Reproduce…
Alla quinta canzone erano già tantissimi, e muovevano le anche, facendo oscillare le birrozze a destra e sinistra. Il concerto si spegne con Eine Kalte Geschichte, e le loro speranze più grandi sono state tutte esaudite: sorrisi e pacche da ogni dove, la soddisfazione per tutto il gruppo di suonare sopra un palco del genere… per Monique, poi, avere vicino le sue amiche più grandi che l’hanno raggiunta, Aisha e Lauren… e poi la fotta, conoscere i Do make say things e parlarci per ore…la risposta del pubblico, tutti i cd esauriti.
Erano felici, felici, felici. E io lo ero per loro.
Terzo giorno: off per i Birdies, ultimo giorno di foto sotto palco per me.
Tutto come i due precedenti. Rischio pioggia sventato.
Dopo aver portato a casa anche le foto di quel capellone tinto di nero di Nick Cave, a 4 ore di dormita media a notte, a fin di tutto, ecco la pagella:
Stanchezza reale: 80%
Stanchezza percepita dovuta al vento e al gelo 93%
Dolore di piedi: 87%
Birre bevute a 1 euro alla press room: 10 (facevo quella professionale)
Quantità di kebab e hotdog ingurgitati: non pervenuta
Felicità per le foto a Damon & Nick Cave: 85%
Voglia di morire: 117%
Fortuna Federico ha capito il disagio e ci siamo avviati a casa in navetta, e dopo sole 2 ore di fila, saliamo su e mi metto a dormire in piedi sul palo del bus. Lo giuro su mia nonna.
Fede mi guida, e fra il tragitto tra autobus e casa mi racconta di come la musica sia l’unica cosa su cui ruota tutta la sua vita, e io gli credo. È inutile da spiegare, quando vedi negli occhi, nella voce di chi suona sopra il palco la frenesia, l’urgenza, puoi stare tranquillo che quella è una persona che farebbe 10.000 km con un furgone, dormendo poco e male, mangiando dove capita e anche davanti a due gatti pur di avere la possibilità di far sentire la sua musica. E Fede è così, e non solo: è di una gentilezza che voi neanche immaginate. Varcata la porta, subito al letto, domani c’è da alzarsi presto.
Qui però scattano i ringraziamenti per la casa messa a disposizione da Pietro, un calabrese che senza neanche conoscerci, solo per il fatto che eravamo italiani, ci ha aperto le porte del suo meraviglioso appartamento (e la sua morosa mi ha fatto fare pure una lavatrice, sigh!).
Nella mia corazza cinica sedimentata, dopo queste dimostrazioni di umanità, si sta aprendo sempre di più uno spiraglio di fiducia nel prossimo.
Pietro gestisce un ristorante italiano, “Le cucine Mandarosso”, e il giorno dopo ci ha offerto anche un pranzo gratis. Dopo giorni di panini e tramezzini, la pasta con ragù alla bolognese era come nettare degli Dei per il palato.
Io boh. Gli ho aperto casa se e quando vorrà venire, chiavi in mano.
Ultimo giorno a Barcellona, doppio concerto per gli Honeybird, il primo di mattina al Parco della Cittadella, vicinissimo all’Arco di Trionfo. Mattinata per famiglie al parco, tant’è che i bambini scialano a vedere gli uccellini che suonano colorati, e ballano tutti davanti al palco, e finalmente presentano il loro brano in catalano No he fet res de dolent, a cui tengono moltissimo.
Che lo dico a fare. Monique li incoraggia e i bambini sono incantati. Uno stuolo di padri di famiglia vengono obbligati all’acquisto del cd post concerto. La Cristina d’Avena Iberica.
La giornata finisce al Titty Twister, per il secondo concerto del giorno degli uccellini, dove c’è una reunion di italo-spagnoli da ogni dove: fratelli, fidanzate, uffici stampa e giornalisti e chi più ne ha ne metta, davanti un muro dipinti da alberi rampicanti, i ragazzi suonano e finisce tutto a Italia-Spagna, basta che se magna.
Io mi prendo una serata di libertà, per l’ultima notte spagnola, assieme alla Cioppy e a Emanuele (Roar Magazine), e insieme ci facciamo tutta la Rambla e alla fine ci ingozziamo (ma dai?) di patatine fritte e hamburger.
Nel tornare a casa, sotto la metro, un chitarrista girovago suona la marcia nuziale (?) e io e la Cioppy ci prendiamo per mano e scherzando al grido di “Que viva el amòr”, siamo ufficialmente moglie e moglie.
Dopotutto qui in Spagna, stanno avanti a diritti civili.
PS: un grazie sincero a Andrea Sbaragli, Chiara Caporicci, Michelle Davis e lo staff di A Buzz Supreme, gentilissimi è dire poco. Un salutone alla amichetta di foto Francesca Sara Cauli per le chiacchierate sotto il vento e i palchi, e un altro a Martina Caruso, per la simpatia e l’energia, a tutti gli italiani conosciuti (primo tra tutti, Tony!), a tutti gli spagnoli pazzi, e alle altre nazionalità con cui ho parlato in lingue inventate. E ancora a Daniele per i km macinati insieme e il junk food. Un grazie speciale agli Uccellini, ma ci sarà tempo, manca ancora un’ultima puntata…
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