Come diceva un mio carissimo amico
“Appena vado con una donna, la prima cosa che faccio è chiamare i miei amici e raccontargli tutti i particolari. Perché se non lo dici a nessuno, è come se non l’avessi fatto”
Sono in mega ritardo col report. Sorry.
Dove eravamo? Barcellona.
Ancora una tappa spagnola, prima di volare verso il Portogallo, arriviamo a Leon, e i ragazzi de Los Amigos de Las Tormentas ci ingozzano di vino rosso, taglieri di formaggio e salumi locali prima, durante e dopo il concerto. A fine serata, davanti il bancone, intavoliamo una discussione politica tra di noi e i ragazzi ci bloccano subito: solo musica qui, non si parla di politica. Come degli scolaretti ci zittiamo, e siccome hanno qualche anno più di noi, attaccano a rimembrare concerti storici come Nirvana, Fugazi, Jesus Lizard, Nine Inch Nails dove sono stati. Sigh, riparte l’invidia dell’essere nata prima o di non aver avuto genitori appartenenti all’Azione Cattolica.
Buio. Siamo sopra il furgone, direzione Oporto. Perdonatemi, ma dopo una settimana e mezzo del tram tram, mi sento come Guy Pierce in Memento.
Ma quant’è bella Oporto, completamente lastricata e colorata da capo a piè.
Ma quant’è calda Oporto, un po’ ventosa, ma dopo i 5 gradi della Spagna sembra di stare in Tanzania.
Ma quant’è fica, sopratutto, Oporto, che si fuma dentro i locali!
Era dalla mia vacanza in Belgio che non osannavo così tanto questo liberismo tabagistico.
Posto enorme, l’Armazem do Cha, arredato in stile berlinese. Bruno, il booking portoghese ci fa preparare una cena a base di pollo, riso e patate, e si scusa anche della miseria (?) della cena.
Sempre il mio amico, giorni fa mi dice
“Io sono un privilegiato: mi faccio qualche ora di furgone, arrivo lì, mi danno da mangiare e si scusano anche del fatto che non hanno di meglio (magari ti stanno offrendo cose buonissime), salgo su un palco e comincio a dire tutte le cose che penso e la gente mi paga per ascoltare. Ancora non ci vivo, ma vuoi mettere avere, per quelle manciate di giorni al mese, queste soddisfazioni?”
Concerto degli uccelli al secondo piano, Monique switcha la lingua dall’italiano, all’inglese, allo spagnolo, al portoghese. Non serviva, ma basti sapere che parla anche francese e ebraico. Sospetto anche qualche parola di gaelico.
A fine concerto, attacca il dj set, vado dal dj e gli chiedo un pezzo degli Smiths.
La mancanza di casa si fa sentire pesantemente. In pegno un bacio sulla guancia.
Marpioni: ci sono in ogni nazione. Vabbè per gli Smiths si può fare, [SMACK].
Almeno smontiamo ballando, va.
Salto in ostello, il letto è grande quanto l’aeroporto di Dubai, la felicità.
Viaggio brevissimo, siamo a Villa Real, becchiamo quello che diventerà il nostro mito della settimana: Mario “cavallo pazzo” Rum.
In pratica quest’uomo, metà sangue portoghese, metà indiana (ragazze in ascolto, che ve lo dico a fa), ha riutilizzato una casa coloniale del ‘700 riadibendola a centro sociale, fortunatamente senza sradicare l’architettura, ma con un arredamento che rende giustizia ai passati fasti. La camera preferita, quella dedicata al backstage: la camera del poker.
Tre tavoli verdi rotondi in puro stile proibizionismo americano con le lampade calanti dal soffitto. Parte lo sfidone me, Daniele, Paola, Fede.
Ci devono staccare a forza, ma si comincia. La musica degli Honeybird risuona nella sala degli specchi, un enorme salone con tavolini dove i portoghesi ascoltano il concerto davanti a drinks e chupitos. Unica pecca, io odio i tavoli e la gente seduta per i concerti, a meno che non siano jazz. Ma paese che vai. Nulla toglie comunque al divertimento generale, e il post concerto con Mario diventa un baccanale. Mi giro e Monique è dietro il bancone a servire da bere, mi giro ancora e Paola è assediata da due fans che sono venuti apposta dal concerto precedente a Oporto, per rivederli. Mi giro ancora e, ops gli shottini rum, con variante zucchero e caffè sono pronti, manda giù.
Oh è pronta la seconda mandata, daje ancora.
Ad libitum.
Mi giro ancora e non so come le nostre facce sono spalmate di caffè macinato.
Se solo il tornare a casa dopo una sardella alcolica è dura, figurati smontare, adesso.
Fortuna Mario-cavallo pazzo-Rum, ci guida dritto a casa, è l’alba.
Due ore di sonno, e il sedere sul furgone, penultima tappa, si torna in Spagna, Saragozza.
Facciamo conoscenza del booking spagnolo, Edoardo, e Anna, la sua fichissima moglie insegnante di Pilates.
I regaz suonano dentro La lata de Bombillas, e finito il concerto un giornalista spagnolo placca una strenua Paola per un’ora abbondante, inchinandosi -letteralmente- ai suoi piedi per l’esibizione. Non ci ricordiamo come si chiami, ma a parte la palese sbronza e le parole italo sconnesse, il suo era un innamoramento puro e fervente per Paola, imbarazzatissima dalle lodi sperticate.
Torniamo a casa con Edoardo e Anna, facciamo conoscenza con Fanny e Alexander (i loro mici), i cui nomi dovrebbero dirvi molto dei padroni di casa. Eccentrici, divertentissimi, buongustai, e con un ironico quanto originale gusto per l’arredamento, ci rimpinzano di spuntini notturni con salati, formaggi e salumi (ancora!), e l’immancabile paella!
La mattina dopo si alzano e ci preparano una colazione da re.
Insomma, per farla breve, io ho preso 3 kg in tour.
Hanno un libro guest da farci firmare, gli uccellini lo riempiono di disegni, e dopo calorosissimi abbracci per l’ospitalità e la simpatia, si vola verso l’ultima tappa del tour.
Problema: giorno off tra Saragozza e Livorno, e in definitiva 1.325 Km da fare, non se po’.
Smezziamo il viaggio improponibile in un albergo vicino Marsiglia. Dormiamo lì, in questo piccolo albergo di Brignoles, tutto verde, comprato e impiantato probabilmente da un parco di giochi della Lego. O più semplicemente un nuovissimo albergo a ore nella zona industriale, ma chissene, è pulito e i letti anche. Serata film, l’unica che siamo riusciti a concederci in due settimane, resistiamo al sonno guardando “Il lato positivo” (guardatelo) e poi crolliamo come sassi.
Ok, ci siamo. È quasi finita. Questa è l’ultima, poi tutti a casa. Livorno ci accoglie con un sole casalingo, che avevamo le lacrime agli occhi.
Cinque Dorothy a dire ”nessun posto è bello come casa mia”.
Nel Teatro Officina Refugio ci sono le pulizie in corso, dopo lo smonto e il sound check, leviamo le tende per la cena e Fabio, il nostro mentore, ci propone un pò di spicchi di pizza.
Daniele viene da noi e fa “Eh ragà, c’hanno le pizze”
Adesso, non è per fare gli schizzinosi, ma dovete capire che a parte le cene della gente perbene che abbiamo incontrato, io sti 3 kili li ho messi su mangiando pizze, pizzette, tramezzini e panini negli autogrill di mezza Europa.
La saturazione di schifezze era al limite. Così gli altri.
“Raga… gli chiediamo se possiamo andare a mangiare in un ristorante?”
Il buon Fabio capisce tutto, ci porta in una trattoria tipica, sui navigli Livornesi (andate a Livorno, vi prego), e dopo 17 giorni di cibo straniero (buono per carità, ma…) ordiniamo un genuino, nostrano, perfetto e ineguagliabile piatto di PASTA.
Si torna, si suona, si controllano i volumi e si fa foto, in questo piccolissimo teatro con palco, un minuscolo quanto prezioso baluardo di cultura e responsabilità civile della città.
Si torna a casa a piedi in ostello, una lunga passeggiata attraversando Piazza Grande, e ci accorgiamo che mentre tornavamo in italia, era finalmente arrivata la primavera, quella vera, e dai piccoli vicoli coltivati a giardino ci arrivavano ventate di profumi al gelsomino. Con quell’odore ci siamo addormentati, e il giorno dopo il viaggio di ritorno a Roma è stato il più breve di tutto il tour.
Quant’è difficile dirsi “arrivederci?”.
È addirittura più difficile di dire “addio”.
Nell’addio c’è sicurezza.
Nell’arrivederci c’è quel misto di imprevedibilità, casualità e in qualche modo anche impegno da parte tua e dell’altro, e ci si vincola nella sottile promessa del rivedersi, che a volte può essere disattesa. E tu lo sai, come lo sa l’altro.
Forse è questo che forza il cuore a star male di più, dopo aver pronunciato un agrodolce ”arrivederci”.
Ricordate, avete mai fatto un viaggio breve, intensissimo con i vostri amici, il viaggio della vita. In cui ogni cosa, la migliore è stata bellissima o la peggiore è stata da ridere, ma è stato sempre e comunque speciale?
Io ho vissuto qualcosa di simile, e credo anche gli altri, perlomeno dopo avermi lasciata sul portone di casa è stato difficile e ci abbiamo messo un po’ di tempo prima che il furgone ripartisse e li riportasse tutti nelle loro case.
Sono tornata alla vita solita, le foto in giro, la post produzione chiusa in casa, mentre fuori ora è estate. I ragazzi sono tornati in tour per l’Italia. Ci sentiamo.
Ma io quella promessa non voglio disattenderla, perché anche se sono state solo poco più di due settimane, ogni singolo giorno, ogni ogni stupida risata per ogni singola cazzata li ho impressi nel cuore, nella memoria, e anche qui, nei report.
Soprattutto quelle che qui, non ho potuto raccontare ;)
Grazie, Uccelletti.
Il mio amico direbbe “Cazzo, che bello. Però sempre meglio un porno”.
POSTERONE FINALE MANCO FOSSE IL CIOÈ