Immerso nelle notti affollate di Piazza Bellini, Gentle Hour è un appuntamento fisso delle serate indie napoletane. Un evento che racchiude un concetto umano essenziale, quasi ancestrale: la sorpresa, umana, ad una performance artistica. Improvvisa, improvvisata. Concerti, come ritorno alle radici della divulgazione culturale. Racchiusi nella meravigliosa cornice dello Spazio Nea, un locale come un ponte tra passato e presente. DLSO è media partner dell’evento.
Quattro chiacchiere con Roberto Strino, l’organizzatore.
Roberto, parlaci di Gentle Hour.
Gentle Hour è un mio format, scritto per una serie di eventi presso Nea Gallery, uno spazio singolare al centro di Napoli. Tutto nasce dalla location, una sorta di piega spaziotemporale, sospesa tra un café parigino, una galleria d’arte ed un landmark caratteristico da ex regno del sud.
La mia mente è andata subito al lavoro di Vincent Moon, tutto quello che ha fatto con la Blogotheque. Quell’adattare il potenziale espositivo delle nuove tecnologie a quel crocevia di culture e storie, che è il circuito alternative francese.
Considerando i tempi, quasi un azzardo….
Abbiamo osato perché l’idea è stata quella di non fare troppo rumore. Ormai gli eventi sono principalmente il rumore mediatico prima, un mucchio di foto dopo. L’idea è di far vivere un evento musicale anche a chi frequenta la città in orari poco adatti agli stessi, rendendoli partecipi, quasi inconsapevolmente, a queste manifestazioni musicali estemporanee.
Non comunichiamo mai chi si esibirà, chi non c’era prende coscienza dell’accaduto grazie alla produzione video che postiamo sul tumblr ufficiale o sui canali media di Spazio Nea
Conosco bene lo Spazio Nea, i suoi spazi, la sensazione di vuoto spaziale. Un vuoto da riempire con l’arte. Da qui l’idea dell’estemporaneità?
In realtà, lo spirito mio e della direzione dello spazio, tre gentiluomini eccezionali, è stata quella di restituire corposità alla performance musicale. Se si spoglia l’evento del megafono sui social media, e soprattutto lo spettatore non è preparato alla cosa, si abbattono determinate barriere di genere ed abitudine: la musica ha la chance di essere colta nel pieno dell’espressione della sua sostanza, senza interferenze.
Se ti è piaciuto puoi rivederlo dopo, e nel tentativo di cogliere quel contesto particolare con la produzione video, c’è lo stesso spettatore. Gli spettatori sono parte integrante del format insieme al suo modo di essere comunicato, allo spazio e a chi si esibisce
È in sostanza una provocazione artistica. Arte sia come contenitore, le serate, che nelle performance che avvengono al loro interno. Una cosa che mi ricorda na Nouvelle Vague francese, o sbaglio?
Forse nella mia testa in modo più derivativo, quella corrente ha influenzato un’altra corrente, contemporanea a noi, che a sua volta ha modellato molto del mio modo di concepire le performance. La provocazione c’è, ma non saprei collocarla concettualmente, è come un tentativo di catturare con tecnologia d’avanguardia un contenuto fondamentalmente reazionario.
Il clima provocatorio è confermato anche dalla scelta dei performer, menti catturate nel passaggio dall’underground, alla fruizione più consapevole di una fetta di pubblico più ampia
Similarmente a come avveniva un tempo, seguendo la medesima corrente, con la cosiddetta “società dei consumi”. Conseguenzialmente, per te, i social network sono un’estensione di quella società?
In questo caso, si sta parlando dei social come strumento, ed in particolare a come si adattano agli eventi fisici. Ad esempio, le esibizioni live. La mia ricerca è partita dalla domanda: “come faccio a far vivere questo tipo di esperienza con pienezza dal vivo o a posteriori su Internet?”
L’atmosfera, la selezione ed il taglio artistico dei video sono tutti strumentali a questo scopo.
La questione del social network è troppo complessa per essere affrontata in questo modo, ma il modo in cui ho preso questa faccenda, forse mi fa capire che li vedo come un palco dove vengono esibiti aspetti dell’umanità che nell’era pre-social erano marginali o sopiti.
Mi sembra un’idea di rottura molto interessante. In precedenza parlavi di una grande attenzione, mirata, per la scelta dei performer. Puoi parlarmi di alcuni di loro?
Abbiamo iniziato con Kawamura Gun: songrwriter, chitarrista in una band romana, artista grafico. Un genio. E’ nato in un villaggio di pescatori in Giappone, e dopo aver studiato arte a Londra, è venuto in Italia affascinato dalla transavanguardia. Ha definito “commerciali” gli arrangiamenti dei Grizzly Bear, per farti capire il tipo. Poi c’è stata La Rua Catalana, li ho beccati in un secret concert in un ostello. La loro esibizione è stata da brividi, non era un’esecuzione, erano “nel momento”, capisci? Se fossi il loro produttore gli inietterei nelle orecchie dodici ore di Fanfarlo, per poi vedere che ne esce. La scelta si orienterà sempre su personaggi e band con caratteri molto forti. Piene espressioni del passaggio epocale che stiamo vivendo nella musica, anche qui.
Umanità. Come quella degli spettatori, le loro reazioni. Puoi raccontarmene qualcuna?
Con Kawamura erano tutti spiazzati. Sia la gente nel post-aperitivo, sia quella che si era fiondata grazie al passaparola, non sapevano come reagire. Niente di preannunciato, le scale i tavolini e il cortile pieni di gente stretta attorno ad un Syd Barrett asiatico, telecamere circolanti tra le teste, candele, gli account twitter invasi da immagini che sembravano essere scattate in qualche locale frequentato da hipster nell’Europa continentale. Piuttosto inusuale.
Straniante, anche per Napoli. Incontri un conoscente all’ingresso. Incuriosito, ti chiede informazioni. In poche parole, cosa gli diresti?
Gli direi: “Sta per accadere qualcosa, probabilmente visto il posto sarà bello. Se ne prendi parte, lo farai sul serio. Sedimenterà dentro di te la cosa, perché è come provare un frutto per la prima volta.” E’ questo che direi per promuovere l’evento. Vorrei fosse un’esperienza totalizzante, che tiri un’aria amichevole. Compartecipazione.
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