“La vita più intensa è raccontata in sintesi dal suono più rudimentale, quelle delle onde del mare, che, dacché si forma, muta ad ogni istante finché non muore”
(Italo Svevo, La coscienza di Zeno)
Esiste un momento della giornata, inaspettato, non collocabile temporalmente, nel quale ci isoliamo dalla nostra quotidianità, immergendoci in in una dimensione astratta, personale. Aleggiano, tra le analisi di esperienze vissute, i ricordi agrodolci. Una donna che ci ha lasciato, i baci della nonna, i cartoni animati. È il momento in cui parliamo con la nostra coscienza.
Piccoli dipinti di una cronaca quotidiana, un diario generazionale. È questo “Zeno”, l’esordio attesissimo de I Quartieri.
Come in un film di Antonioni, frammenti di esistenza che si compongono in un insieme che ci appare comune, riproducibile in tante altre esistenze, quanto individuale. Esiste la coscienza di Zeno, esiste Zeno. Un uomo, una donna, un bambino. Esiste una società che lo accoglie, lo rende emarginato oppure eroe, parte di un insieme. Qualcuno la chiama generazione, altri periodo storico, altri ancora periodo di vita. Frammenti, come messaggi sparsi in una valle silenziosa e popolata. Persone che i incontrano tra loro, quasi accidentalmente, individualità che rimangono tali, il freddo dell’empatia mancata, la siccità della mente.
L’emigrazione, e la sua inquietante normalità, raccontato in “9002”, e con essa le facce abbassate di un’intera classe di giovani, di ragazzi, di speranze. “Zeno” è un album fluido nelle sue evocazioni, quanto visionario. Pieno di sofferenza. Sedimentazioni, graffi nella carne di un’umanità continuamente violata, resa schiava dalle brutalità dei tempi, dalla profonda incomprensione della natura. Un corollario d’incomprensioni. Rammarichi, quelli della traccia omonima, la ribellione sopita del nuovo millennio, l’indignazione sopita. Nove tracce come un crepuscolo di consapevolezze incerte, di coscienze annebbiate dall’happy hour della sera, dalla routine di un vivere consumato dalle miserie contemporanee. L’orrore del rampantismo eccitato dei tempi, adrenalinici deliri nel vuoto pneumatico degli eventi quotidiani. Il disagio. Quell’impotenza difficile da esprimere. Un finale, come un requiem del sentire comune, del coraggio. Un disco di chiusure, un disco di auspici, di chimere. Come quelle di “Autostrade Blu”, e la sua continua lotta tra essere ed esistere, un’anima che lotta per la sopravvivenza, contro un mondo che la snatura, che la opprime nei lampi del terrore quotidiano, nei rivoli dell’inadeguatezza. Come calle, nel paesino labirintico del nostro essere. La rassegnazione finale, quella di “Organo”, la disumanizzazione come fine dell’esistenza, binario della morte. Un battito umano, scandito dai suoni incessanti, contraltare alle liriche, triste contraddizione di un esistere/non esistere, vivere/non vivere, essere/non essere. Di quelle sensazioni che ti distruggono, tra le lacrime di un ennesimo giorno di precariato, di disoccupazione, di fallimenti umani.
Le mani sul viso, i brividi ed i dolori, le lacrime prima di un’ennesima notte insonne, e con essa i fantasmi dell’ennesimo sogno mai realizzato. Come in uno schianto improvviso, che turba una spiaggia, la sua corrente. Il tutto per un puntino nell’universo. L’apparente inesorabilità.