I redroomdreamers sono in quattro. Napoletani, al secondo disco, una storia ventennale alle spalle. “Honduras” è il loro nuovo album, una storia di chimere e luoghi immaginari, sussurrati come luoghi dell’anima, immaginari. Un meraviglioso anacronismo. Ci raccontano del nuovo lavoro, di com’è cambiato l’indie italiano. Presente e passato. Differenze, amori, passioni. Visioni future.
Ombre e luci improvvise. Bellissime aperture. Questi sono gli aspetti che mi hanno colpito di Honduras, il vostro secondo disco. E’ un lavoro molto anni ’90, quasi inconsueto, in quest’epoca di tastieroni e synth. Quasi fosse un piacevolissimo memorabilia….
Nessuno di noi è più giovanissimo, e negli anni 90 eravamo li. Personalmente, a comprare i vinili di quei dischi, che poi sono diventate pietre miliari, e all’epoca erano “solo” dischi di importazione. Probabilmente è innegabile che le nostre radici sono li, negli anni 90 inglesi e americani, in quel modo di fare musica indipendente, in quel modo di essere indipendenti. Abbiamo fatto il disco che avevamo nel cuore di fare, e si, tutto suonato, senza tastieroni, computer e altro. Solo valvole, chitarre, percussioni e pelli di batteria…
E quella voglia di “dipingere” musicalmente. Come nel surrealismo di Beck, come nella provincia americana dei Pearl Jam, come nel Galles degli Stereophonics. E’ questo che mi ha stimolato maggiormente: quell’eterno rapporto tra luogo dell’anima e realtà.
Si, sono contento che tu abbia colto quelle cose, il senso dl disco è quello, i punti di riferimento possono essere quelli, come gli American Music Club, i Grant Lee Buffalo, i Karate o oggi gruppi come Wilco, Low o The National. Band che, dal nostro punto di vista, non hanno avuto paura di mettersi a nudo. Siamo andati in studio senza maschere, a fare quello che sappiamo e sentivamo di fare, abbiamo avuto la fortuna di trovare in studio, Giacomo Fiorenza, una persona che ci ha aiuto ad andare in quella direzione, senza paura…
E si sente. Giacomo Fiorenza è un produttore che ha confezionato gemme nella storia dell’indie italiano. Socialismo Tascabile degli Offlaga Disco Pax, Punk Not Diet dei Giardini di Mirò, giusto per citarne alcuni. Non ti nego che ho sentito quelle chitarre che tanto adoravo, i Yuppie Flu. Com’è stato lavorare con lui?
Una cosa pazzesca da ogni punto di vista. Premetto che non ci conoscevamo. L’ho contattato come qualunque cazzone che aveva adorato alcune delle cose che aveva fatto, a cominciare da Yuppie Flu. Gli ho detto: “Questi sono i provini, c’è l’hai un po’ di tempo per noi?”. Ce l’aveva.
Veramente incredibile, è nato tutto da una mail, dal suo ascolto dei provini, senza intermediari, senza amici di amici. Lui è stato fantastico, sia dal punto di vista tecnico-artistico che personale. Siamo tutti convinti che l’atmosfera che si è creata in 10 giorni chiusi in studio a Bologna sia quasi irripetibile. Ha colto l’anima del disco e della band, l’ha assecondata, aiutandoci molto in alcune cose, ma anche lasciando delle altre assolutamente nude e crude. Ad esempio la voce in “Sunset Song”, buona alla prima. Perchè lo spirito era quello.
Credo che miglior scelta non poteva esserci, per fare il disco che abbiamo fatto, e so che si è divertito molto anche lui, tanto da mettere un paio di chitarre.
Evidentemente ne sentiva il bisogno, c’è molta penuria di chitarre nell’indie italiano. Ma non nella scena napoletana. Non a caso, il vostro disco mi ha ricordato tanto “Soldiers and Faith” dei Blessed Child Opera, un disco uscito qualche anno fa. E mi ha colpito la stessa contraddizioni in termini: la solarità di Napoli e la cupezza di alcune soluzioni compositive, anche liriche. Quell’idea di amore e di fuga…
I Blessed… Napoli ha una scena fantastica, ci sono tante band meravigliose: Shake& Speares, Stella Diana, Epo, per citarne alcuni. Tante cose che non riescono ad emergere per motivi diversi, o forse tutti uguali. Paolo Messere lo conosco da una vita, è stato coinvolto nella prima fase del nostro primo disco, lui resta un autore incredibile. Inoltre, Napoli è questo, il sole, il mare, ma un’atmosfera cupa perdurante e persistente. Per me è una città cupa, in realtà. Così come i napoletani, esseri complessi e per niente solari come si possa pensare.
Adoro Messere anche io, davvero tanto. Come produttore, come artista. Lo definisco un grande napoletano. In una mia vecchia recensione, di un disco prodotto da lui, utilizzai i pensieri di un giorno di pioggia a Corso Umberto. La malinconia. E’ la stessa sensazione che provo, a tratti, sentendo Honduras.
Si, è vero. Honduras è un disco malinconico, ma in fondo i redroomdreamers lo sono sempre stati, solo che in questo disco è venuto tutto un po’ più fuori. Honduras è un disco da ascoltare. E’ un disco che, per come è stato registrato, per come è scritto, ha i tempi di ascolto del vinile. Insomma, ci rendiamo conto che se lo metti nelle casse del computer, e lo senti così, un po’ per caso, si perdono tante cose. E’ stato un rischio calcolato, ma avevamo voglia di fare questo tipo di disco, senza pensare al contesto, diciamo così. In compenso, se hai la pazienza di metterlo su un bello stereo, con delle belle cuffie, te lo godi.
Il buon vecchio approccio. E ritorna la vita da ascoltatore e musicista anni novanta. Spesso, molti ragazzini mi chiedono delle differenze tra quell’epoca ed oggi. Io spiego, a volte ricordo, altre volte non so descrivere con esattezza. Voi cosa raccontereste?
C’è una cosa che non capisco. Perchè un disco lento, e gli esempi si sprecherebbero negli ultimi anni, viene dall’estero ed è figo, mentre se italiano deve per forza far divertire e ballare? In generale naturalmente, fatte salve tutte le eccezioni.
Forse perché un tempo c’era una maggiore idea di “rottura”. Mi vengono in mente le meravigliose strozzature stilistiche degli Starfuckers, ad esempio…
Io ed Alessio Sica, il batterista, avevamo una band nei 90. I Growing Ocean. Da musicisti ti dico, che allora non si pensava molto, si suonava e basta. Tutto sommato, c’erano anche meno possibilità. Per dire, oggi io posso mandare una mail a Fiorenza e chiedere, all’epoca no. All’epoca si andava con una lista di centri sociali scritta male su un un foglio al telefono pubblico, con tante monetine, e si cercava di chiudere le serate.
Non c’era Facebook…
Non c’erano gli eventi, si faceva la colla e di notte si andava ad attacchinare le locandine in giro, con i panini fatti a casa. Gli strumenti erano quelli che erano, nessuno pretendeva di spendere 10000 euro di strumentazione. Era tutto più sgangherato, ma forse tutto un pò più vero e spontaneo. Oggi sembra che stiamo tutti rincorrendo, anche nella musica, un sogno che forse non è il nostro. Un cane che si morde la coda all’infinito, nessuno è in grado di trovare strade diverse a quelle imposte. In fondo il mercato indipendente degli anni 80/inizio 90 era questo, un modo diverso di fare le cose rispetto al mainstream.
Il DIY in sostanza…
Esatto, anche organizzato, ma sì, esatto. Lo faccio bene, ma lo faccio da solo, con i miei amici, con la mia rete, con la mia scena, con il mio mondo e con le mie regole, che non sono le vostre…
E ciò si traduceva nella spontaneità dei live. Pubblico e band…
Esatto, il pubblico andava ai concerti e andava a vedere ed ascoltare la band. Oggi, ho l’impressione – in molti casi, non in tutti – che la presenza di una band sia ininfluente. Anche in concerti con nomi grossi, mi è capitato di fare fatica a sentire la musica, sovrastata dal vociare costante. Spesso, in alcuni brani soffusi, noi dal vivo facciamo fatica a sentirci sul palco, perché siamo sovrastati dal vociare, e non riesci a suonare all’intensità giusta. In fondo si tratta di guardare uno spettacolo per 60 minuti, poi si può parlare tutta la sera, tutta la vita, non si capisce perché ci sia questo irresistibile impulso alla conversazione durante i live.
È l’approccio, sono i tempi. I locali anni 90, i ricordi. E’ situata lì la vostra Honduras?
Non esattamente. La nostra Honduras è situata qui, adesso, nel 2013, con una nuova urgenza, che non vuol dire per forza velocità. Radici lunghe, anzi lunghissime, come quelle degli alberi secolari.