Io me lì vedo, me lì vedo Mayer e Voigt seduti in sede Kompakt a scuotere la testa, all’alba del ventennale dopo aver cannato in pieno con Mantasy di Mayer (noioso minestrone che non sa che uscita prendere) e Daniel Maloso (ingabbiato in un suono stantio) me lì vedo, discutere di cambiar registro dopo aver volutamente cassato la Kompakt total 13 per superstizione indotta. Me lì vedo qualche mese dopo con convinzione a puntare su Kolsh e il suo debutto 1977 per il rilancio e azzeccare in pieno progetto e riuscita. Me lì vedo già meno nervosi lanciare il nuovo tre tracce di Boratto sapendo di giocare una carta sicura e me lì vedo infine ora, belli paciarotti a dire “ok adesso segniamo il punto, tracciamo la linea, puntiamo al top, adesso fuori The Field adesso, bisogna sintetizzare il momento, il periodo, lo stato d’animo di tutti. Chiamate The Field e sentiamo che ha da raccontare dalla Cupid’s Head”.
Ed eccolo il quarto lavoro di chi ha la tensione evolutiva e il loop come stato/vizio di forma, tensione sferzata, sfiorata, infastidita dalla poesia cupidiana, talvolta sotto forma di frecce altre di cuoricini, in altre situazioni sono solo gadget amorosi di una cartoleria di provincia che quindi viziano questa tensione ma non la spezzano, se mai la modulano in un ghigno beffardo, aggiungendo horrorificismi a un loop che vive di frenesia. Non sarà il sapore alla banana delle 25 gocce di Lexotan a premere la parola “fine” di un viaggio quasi techno come nella title track o nei percorsi che richiamano l’ultimo monumentale lavoro di Deepchord. Non sarà nemmeno la miglior Blue Berry Olandese che anzi farà male, farà ancor di più da ansia psicotropa accelerando se possibile ancora il tutto. L’unica via percorribile è amare, aggrapparsi con le unghie ai lampi di calore e luce che improvvisi, appaiono sotto forma di speranza e di amore nel viaggio guidato nella testa di un Cupido, indaffarato, deluso e invecchiato. L’unica strada che porta alla luce è la vita stando al passo del loop, chi rallenta muore, chi non balla muore, chi non vive muore, per salvarsi, tante volte bastano 20 secondi di affetto per innamorarsi di un album costruito sul solito schema funzionale a The Field, più asettico rispetto a From Here We go to Sublime e meno confuso rispetto a Looping State of Mind. Maturità tensionale artistica di chi ha idee ben chiare su ciò che gira nella testa di cupido, bene, bene, molto bene.